sabato 2 giugno 2012

ANCORA SOLDI AI PARTITI?


Dopo lo scandalo scoppiato per l’uso improprio (ed usando questo aggettivo faccio certamente dell’understatment) dei fondi pubblici erogati a titolo di rimborsi elettorali alla Margherita ed alla Lega Nord, il Parlamento, fra titubanze e rinvii, sta discutendo della riforma del finanziamento pubblico ai partiti.
L’articolo 49 della Costituzione, per quanto riguarda i partiti, si limita ad affermare che “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”.
Cionondimeno i partiti politici hanno avuto un ruolo assai significativo nella storia del nostro paese nel dopoguerra. Non a caso Pietro Scoppola, nel pubblicare, nel 1991, al declinare della prima Repubblica, la sua storia dell’Italia repubblicana, ebbe significativamente a denominare la sua opera “La Repubblica dei partiti”.
L’articolo 49 è uno dei primi esempi di riconoscimento in una costituzione moderna del ruolo dei partiti politici. Per l’inserimento della nuove realtà dei partiti politici, l’Assemblea costituente scelse il riferimento alla libertà dei singoli, incentrato sulla visione dei partiti quali “libere associazioni” di cittadini. La scelta, appare ovvio, fu motivata dal rifiuto del modello di partito – stato che aveva contrassegnato l’esperienza fascista e che, in quegli stessi anni, dominava nell’Unione sovietica e si andava affermando nelle “democrazie popolari” dell’Est europeo.
Nell’Europa di oggi, mentre alcuni paesi (Estonia, Ungheria, Slovenia) includono la loro disciplina dei partiti all’interno del più generico riconoscimento della libertà di associazione, il modello prevalente (Portogallo, Germania, Italia, Francia) è costituito da una esplicita previsione della libertà di riunirsi in partiti, inserita nell’ambito della categoria dei diritti politici, più che come una specificazione delle libertà civili.
I partiti sono, quindi, preordinati alla formazione della volontà dello Stato. Pertanto, da una parte, le associazioni politiche appartengono alla società civile, dall’altra parte svolgono funzioni di carattere costituzionale, concorrendo a determinare la politica nazionale ed operando, in via pressoché esclusiva, la selezione dei candidati alle elezioni.
Anche l’articolo 191 del Trattato istitutivo dalla Comunità europea riconosce il ruolo dei partiti affermando che “I partiti politici a livello europeo sono un importante fattore per l’integrazione in seno all’Unione. Essi contribuiscono a formare una coscienza europea e ad esprimere la volontà politica dei cittadini dell’Unione”.
E’ chiaro, quindi, che la libertà, per i cittadini, di associarsi in partiti è elemento distintivo del pluralismo politico che contraddistingue gli stati democratici.
Peculiarità italiana, scarsamente ravvisabile nei paesi democratici di tradizione occidentale, è la partitocrazia, termine con il quale si indica un regime politico in cui il potere effettivo ha il suo centro nei partiti e non negli organismi previsti dalla Costituzione e dalle leggi (che si limitano a dare veste legale a quanto deciso altrove).
Il termine fu coniato dal costituzionalista Giuseppe Maranini che lo usò, per la prima volta, nel 1949, nella sua prolusione all’Università di Firenze, intitolata “Governo parlamentare e partitocrazia”.
La partitocrazia, che ha fatto della democrazia italiana un regime sui generis (perché mai, per essere primari in un ospedale, è quasi sempre necessario appartenere ad un movimento politico?), si è consolidata anche grazie al finanziamento pubblico dei partiti. Questo istituto fu introdotto dalla Legge 2 maggio 1974 n. 195.
Fu abrogato da un referendum svoltosi nell’aprile 1993, in cui il 90,3% dei votanti ebbe ad esprimersi in senso contrario al finanziamento.
Ma fu, pochi mesi dopo, reintrodotto (dalla Legge 10 dicembre 1993 n. 515) nella forma dei rimborsi elettorali.
Tale legge, successivamente modificata ed integrata (da ultimo con la Legge 23 febbraio 2006 n. 51) non è, di per sè, illegittima: l’abrogazione di una norma a seguito di un referendum non impedisce, infatti, al Parlamento di approvare una nuova norma di contenuto simile a quella abrogata. Ma è politicamente riprovevole e assolutamente immorale.
Le somme erogate negli ultimi anni a favore dei partiti politici sono certamente cospicue e superiori alle oggettive spese elettorali. Mentre gli italiani tirano la cinghia per la crisi economica che sempre più si fa sentire, i mezzi di informazione hanno parlato di finanziamenti pubblici utilizzati per l’acquisto di oro e diamanti, ovvero per le spese personali di taluni dirigenti e dei loro familiari.
L’indignazione provocata da tali accadimenti è notizia di questi giorni. Parlarne esula, peraltro, dalle finalità che mi propongo.
Il finanziamento pubblico dei partiti in generale, non è cosa cattiva e, non a caso, è previsto in vari ordinamenti. Ha, palesemente, lo scopo di impedire che l’attività politica sia di fatto preclusa alle persone che non dispongono di cospicui mezzi personali. Così era nell’Italia liberale postunitaria, quando non esisteva neppure l’indennità parlamentare e venivano eletti deputati quasi esclusivamente i grandi proprietari terrieri, gli industriali, i professionista più noti, i docenti universitari.
Cionondimeno nell’attuale contesto politico, sociale, economico dell’Italia, il finanziamento pubblico ai partiti è inaccettabile.
I politici che non se ne accorgono, e non sono pochi, hanno, me lo si consenta, le fette di salame sugli occhi.
Come già si è detto, i partiti sono strumenti indispensabili nelle democrazie moderne. Sono irresponsabili quei politici che, con il loro stesso comportamento, alimentano la crisi di rigetto degli elettori nei confronti dei partiti.

 
(articolo pubblicato sul quotidiano cremonese on-line Cremonaoggi.it nel giugno 2012)

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