mercoledì 6 aprile 2011

L’AVVOCATURA ALLA RICERCA DI SE’ STESSA

Qualche settimana fa, su queste stesse colonne, Gianfranco Taglietti, con l’abilità che tutti gli riconoscono, ha tratteggiato, nel cinquantesimo anniversario della morte, la figura dell’avvocato Mario Stradivari, caratteristico personaggio della vecchia Cremona. Nonostante abbia alle spalle quasi quarantadue anni di avvocatura, io non ho avuto modo di conoscere l’avvocato Stradivari. Ne ho, tuttavia, molto sentito parlare, poiché, quando iniziavo la professione, la sua figura era ancora ricordata nelle aule di Palazzo Persichelli e la sua voce tonante ancora, per così dire, riecheggiava nei corridoi. L’avvocato Stradivari fu uno degli ultimi epigoni di un’avvocatura ormai consegnata alla storia. Sino alla metà del secolo XX, l’avvocato era, più che un tecnico del diritto, un umanista. Le ore che trascorreva in ufficio erano, rispetto alle abitudini di oggi, relativamente poche e l’avvocato, oltre che i codici e le pandette, amava leggere i classici, dilettarsi di musica e di teatro. Per l’avvocato, era altresì un vanto occuparsi della cosa pubblica; prima della grande guerra nelle amministrazioni locali era cospicua la presenza di avvocati. Il XX secolo ha visto, tuttavia, in molteplici campi dell’attività umana, l’affermarsi progressivo della tecnica e della specializzazione (La politica e la tecnica come professione di Max Weber risale al 1919). L’avvocato, di fronte ad una società sempre più complessa, ha dovuto di necessità affinare la propria preparazione giuridica, dovendo diventare, anche per poter continuare ad esercitare la sua funzione di mediatore sociale, sempre più tecnico del diritto. Gli autori ai quali oggi un avvocato di buona cultura deve fare riferimento non sono più Virgilio, Catullo ed Orazio, come ai tempi dell’avvocato Stradivari e delle generazioni che l’hanno preceduto, ma Galgano, Zagrebelsky, Santoro Passarelli o Rosario Nicolò. Una vera mutazione genetica, dunque. Nel frattempo, ci si è avveduti che la preparazione fornita dall’Università, anche se più approfondita di un tempo (il corso di laurea in giurisprudenza è passato da quattro a cinque anni), non è certo sufficiente per l’intero arco della vita professionale di un avvocato. Altre professioni hanno affrontato di petto la questione. I medici, ad esempio, hanno ormai più che valide scuole di specializzazione, a carattere teorico-pratico, e gli specializzandi che le frequentano sono (giustamente) retribuiti. E’ ben vero che la salute, di cui i medici devono occuparsi, è un valore essenziale, ma è altrettanto vero che la libertà personale non è un valore meno importante. Nel sostanziale disinteresse del legislatore (che si è limitato ad istituire le Scuole di specializzazione per le professioni legali, che, tuttavia, preparano all’accesso alla professione e non si curano dell’aggiornamento permanente dei professionisti), la categoria degli avvocati ha dovuto occuparsi da sola del proprio aggiornamento. Avrebbe potuto (e sarebbe stata la soluzione più semplice) affidarsi al mercato: l’avvocato ha la necessità di tenersi aggiornato e deve provvedere da sé a migliorare la propria cultura giuridica, leggendo libri e riviste e frequentando seminari, convegni e corsi post-universitari. Se non lo fa, sarà meno competitivo nel suo lavoro e lavorerà meno bene e con più difficoltà. Invece il Consiglio Nazionale Forense, l’organismo posto al vertice del sistema degli Ordini professionali (sulla cui rappresentatività sarebbero da avanzare non poche riserve) ha elaborato, considerando l’aggiornamento un obbligo deontologico su cui gli Ordini hanno il compito di vigilare, un complesso sistema di crediti formativi, che devono essere acquisiti dall’avvocato nel corso di un triennio. Non ho certo la pretesa di spiegare il funzionamento del sistema messo in piedi dagli Ordini che, almeno sino ad oggi, si è rivelato essenzialmente un modo per garantire un pubblico anche ad iniziative di infimo valore e di ben scarsa valenza culturale. In buona sostanza: tutti si sono messi ad organizzare seminari e corsi di lezioni, sovente a pagamento, che gli avvocati si vedono costretti a frequentare, pur di riuscire ad accumulare i crediti che hanno l’obbligo di conseguire nel triennio. Risultato: ore ed ore vengono sottratte al lavoro, mentre gli abissi di ignoranza, se esistono (e talora esistono), permangono inalterati. Gli Ordini, poi, trattano gli avvocati come asini, alternando il bastone alla carota. Basteranno due esempi, tratti da quella miniera di informazioni che ormai è internet. L’Ordine di Bergamo ha organizzato una proiezione del celebre film Kramer vs Kramer, cui è seguito un dibattito. Un cineforum di periferia, quindi, cui però vengono attribuiti tre crediti formativi. L’Ordine di Reggio Emilia, invece, ha organizzato, in occasione della manifestazione degli avvocati a Roma contro la recente legge sulla mediazione obbligatoria nelle cause civili, una trasferta a Roma in pullman, con l’attribuzione ai partecipanti di ben otto crediti formativi. Lascio ai lettori di immaginare quali saranno stati i vantaggi, sotto il profilo della preparazione giuridica, della partecipazione ad un cineforum e ad un viaggio (o dovremmo definirlo una gita?) a Roma. Ma la trepidante solerzia con cui il Consiglio Nazionale Forense si occupa della formazione culturale degli avvocati non finisce qui. Il prossimo 1 luglio entrerà in vigore il Regolamento (emanato non si sa in base a quale norma di legge), in forza del quale il Consiglio Nazionale Forense potrà attribuire, agli avvocati che supereranno una sorta di percorso di guerra, congegnato sulla frequenza di corsi a pagamento, il titolo di specialista in un determinato ramo del diritto. Non starò a soffermarmi sui complessi dettagli di tale regolamentazione. Mi limito ad osservare che non si comprende quale particolare competenza abbia il Consiglio Nazionale Forense per rilasciare, al posto dell’Università, dei titoli di specializzazione. Ovviamente, gli avvocati che conseguiranno il titolo non saranno particolarmente più specializzati di coloro che ne saranno privi. Ma intanto si onerano gli avvocati che intendono svolgere con serietà il loro lavoro, ed essere apprezzati come tali, delle spese per la frequenza dei corsi e del tempo necessario per seguire i corsi stessi e preparare relazioni ed esami. Queste novità si inseriscono in un momento non facile per la professione forense: la crisi economica ha inciso pesantemente, come è stato riferito da diversi quotidiani, sul lavoro degli studi legali, già condizionato negativamente da recenti leggi che hanno ridotto il lavoro e ancor più lo ridurranno in futuro (il D.Lgs. 7 settembre 2005 n. 209 denominato Codice delle assicurazioni e il D.Lgs. 4 marzo 2010 n. 28 sulla mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali, di cui, in una prossima occasione, converrà parlare particolareggiatamente). A fronte di ciò, la nomenklatura che oggi governa l’avvocatura dà la sensazione di essere solo una casta autoreferenziale che mira a perpetuare sé stessa. Certo qualcosa di molto meno efficace della Associazione Nazionale Magistrati, che ha sempre e concretamente esaltato il ruolo, anche sociale, dei propri aderenti. (pubblicato sul quotidiano "La Cronaca" nel mese di aprile 2011)

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