venerdì 1 ottobre 2010

A PROPOSITO DELLA FORMAZIONE DELLE GIUNTE

Pur avendo maturato molte riflessioni in proposito, mi ero ripromesso di non parlare della formazione delle giunte (a Cremona e altrove) e dei problemi, giuridici ed istituzionali, connessi, fino a che la situazione non si fosse definitivamente assestata. Ciò allo scopo di impedire che le mie considerazioni potessero essere interpretate in chiave politica, e cioè come presa di posizione a favore dell’uno o dell’altro schieramento, secondo il malcostume italiano (e cremonese), per cui ogni analisi sulle istituzioni deve necessariamente nascondere secondi fini.
Vengo meno a questo mio impegno ed affronto il problema, proprio perché mi sono reso conto che le criticità che hanno caratterizzato l’entrata in funzione delle nuove giunte sono, almeno in parte, legate a nodi istituzionali ancora irrisolti, ad onta delle riforme degli anni novanta, nodi che caratterizzano l’assetto dei poteri locali nel nostro paese.
Fino al 1990, l’assetto istituzionale dei Consigli e delle Giunte comunali e provinciali (disciplinato ancora dal R.D. 4 febbraio 1915 n. 148, tornato in vigore dopo la parentesi fascista, e dal D.P.R. 16 maggio 1960 n. 570) si ispirava ad uno schema a cerchi concentrici, in cui un organo assembleare esprimeva, al proprio interno, un organo esecutivo ristretto nonché l’organo individuale che li presiedeva entrambi.
Lo schema, che funzionava nell’Italia postunitaria, in cui si votava con suffragio ristretto e non vi erano partiti organizzati, non resse, tuttavia, all’impatto, sempre più forte, con quel fenomeno che il costituzionalista Giuseppe Maranini ebbe a definire “partitocrazia”, espressione che poi conobbe molta fortuna.
Negli anni ottanta le Giunte comunali e provinciali erano ormai ridotte ad essere meri strumenti di esecuzione delle scelte che, fra una crisi e l’altra, venivano concordate fra i partiti in sede locale.
Così pure si accrebbero le difficoltà nella formazione degli esecutivi, che era condizionata da lunghe e faticose trattative fra le forze politiche locali.
Il fatto che, nel 1985, cinque mesi dopo le elezioni regionali ed amministrative, in cinque regioni ed in circa 2.000 comuni fossero ancora in corso le negoziazioni per la formazione delle giunte, rivelava un profondo disagio, che fu alla base della riforma concretatasi nella Legge 8 giugno 1990 n. 142.
Il legislatore intervenne cercando di eliminare gli inconvenienti più evidenti: fu fissato un termine per la formazione delle giunte e l’elezione delle stesse, abbandonato il sistema del voto segreto (che favoriva i cosiddetti “franchi tiratori”), fu prevista a voto palese, su una lista collegata ad un documento programmatico.
Tre anni dopo, la Legge 25 marzo 1993 n. 81, stabilendo che il Sindaco ed il Presidente della Provincia fossero eletti a suffragio universale diretto ed assegnando loro il potere di nominare e revocare i componenti della Giunta, ridisegnò, nei suoi tratti essenziali, il sistema del governo locale.
Già la Legge 8 giugno 1990 n. 142 aveva previsto la possibilità di nominare assessori “esterni” (e cioè estranei ai Consigli). La Legge 25 marzo 1993 n. 81 stabilì, poi, l’incompatibilità fra l’appartenenza alla Giunta ed al Consiglio. Queste soluzioni tecniche, unite al fatto che le dimissioni del Sindaco (e del Presidente della Provincia) implicavano lo scioglimento del Consiglio, sembrarono garantire una stagione di stabilità. Verso la metà degli anni novanta, scomparvero pressoché totalmente le crisi delle giunte (nessuno voleva rischiare lo scioglimento dei consigli e nuove elezioni) e furono formate Giunte composte prevalentemente da esperti scelti dal Sindaco (o dal Presidente della Provincia) e che a lui, eletto direttamente, rispondevano. Per quanto riguarda Cremona, penso alla prima giunta Bodini (nella quale il Vice Sindaco e due importanti assessori erano persone estranee al sistema dei partiti).
Il nuovo sistema trovò un assetto definitivo nel nuovo Testo Unico sulle autonomie locali (D. Lgs. 18 agosto 2000, n. 267), che riordinò la materia, senza introdurre innovazioni essenziali.
Nella prassi politica, invece, si è verificato, dopo la riforma del 1993, un lento e progressivo ritorno al passato.
Le giunte formate da esperti estranei ai consigli sono scomparse e gli assessori sono ritornati rigorosamente ad essere consiglieri che, in forza della norma sull’incompatibilità, abbandonano il Consiglio per divenire assessori, lasciando il posto ai primi degli esclusi.
Il numero delle preferenze raccolte e la designazione da parte dei partiti, anziché la competenza tecnica, sono tornati ad essere i criteri per la scelta degli assessori (che non sono più uomini di fiducia del Sindaco o del Presidente della Provincia, ma dei partiti o dei gruppi di potere che li hanno aiutati nella raccolta delle preferenze).
Così pure Sindaci e Presidenti della Provincia, che, forti dell’autorevolezza derivante dall’elezione diretta, potrebbero usare liberamente della prerogativa di effettuare le nomine di competenza dell’ente locale, sono nuovamente costretti ad estenuanti e defatiganti trattative con i partiti che li hanno sostenuti nella competizione elettorale.
Il fenomeno, se non sono un cattivo osservatore, si è ripetuto anche a Cremona, a partire – secondo me – dall’epoca della giunta Corada.
La tendenza, che pare ormai inarrestabile, è confermata dalla recente vicenda della Provincia di Taranto. Come si ricorderà, il T.A.R. per la Puglia ha annullato l’atto di nomina della Giunta provinciale, in quanto, in violazione dello Statuto, della stessa non faceva parte nessuna donna. Il Presidente della Provincia, alla domanda sulle ragioni per cui non aveva provveduto secondo le previsioni statutarie, ha risposto che i partiti non gli avevano indicato alcun nome di donna. Il Presidente della Provincia di Taranto ha, quindi, confessato di avere abdicato alle prerogative attribuitegli dalla legge e di aver preferito violare lo Statuto, piuttosto che disattendere le indicazioni (o dovremmo dire i “diktat”?) dei partiti.
L’orologio della storia sembra, procedendo a ritroso, essere ritornato ai primi anni novanta. Osservando il sistema del governo locale non si può non vedere una crisi di efficienza, cui si accompagna la crisi di legittimazione del sistema dei partiti e, in genere, della politica, che sta progressivamente riemergendo. Sono poi ben visibili le crescenti difficoltà dei partiti nella selezione e nel reclutamento del personale politico locale.
Sarebbero quindi necessarie nuove riforme? Del nuovo “Codice delle autonomie”, che è in gestazione, non si sa molto, ma dubito che possa affrontare seriamente il problema, dato che – nel dibattito politico nazionale - i temi istituzionali sono ben poco presenti (come è dimostrato dalle vicende relative alla legge elettorale per le elezioni politiche).
Il nodo da sciogliere, in realtà, sta nei partiti e nella loro insopprimibile volontà di dominio, che li porta a prevaricare sulle istituzioni, occupando, di fatto, uno spazio che dovrebbe essere loro precluso, come in gran parte dei paesi occidentali.
Io sono sempre stato lontanissimo dalle opinioni politiche di Marco Pannella. Ma quando egli parla della partitocrazia come della “peste italiana”, mi viene il dubbio che abbia ragione.

(articolo pubblicato sul quotidiano "La Cronaca" nell'ottobre 2009)

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