venerdì 8 ottobre 2010

L’EUROPA CONTRO IL CROCIFISSO?

Sono trascorsi ormai più di due mesi dalla sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (Sezione II, 3 novembre 2009, in causa Lautsi c. Italia) che ha ritenuto che l’affissione del crocifisso alle pareti delle aule degli istituti scolastici pubblici si pone in contrasto con il diritto dei genitori di educare i figli secondo le proprie convinzioni religiose e filosofiche e con il diritto alla libertà religiosa.
La sentenza non ha mancato di suscitare dibattiti e polemiche nel mondo politico e istituzionale e, come era prevedibile, da parte del mondo cattolico.
Il punto essenziale della sentenza è costituito dalla seguente affermazione: “La Corte ritiene che l’esposizione obbligatoria di un simbolo di una confessione nell’esercizio della funzione pubblica per quanto riguarda situazioni specifiche, sotto il controllo del governo, in particolare nelle aule, limita il diritto dei genitori di educare i loro figli secondo le loro convinzioni e il diritto degli scolari di credere o di non credere. La Corte ritiene che ciò costituisca una violazione di questi diritti, perché le restrizioni sono incompatibili con il dovere dello Stato di rispettare la neutralità nell’esercizio del servizio pubblico, in particolare nel campo dell’istruzione”.
Ora che, come sempre accade, la polvere dell’oblio si è posata sulla sentenza, è possibile tentare un commento su un piano strettamente giuridico, prima che ideologico. Ragionare di simboli religiosi, infatti, significa inevitabilmente toccare, nel profondo, la sensibilità dell’interlocutore. Cattolici, diversamente credenti, non credenti e laici hanno, ciascuno, una propria convinzione, profondamente radicata nella propria coscienza, che talora non accetta l’opinione diversa.
Occorre, preliminarmente, sfatare un mito: contro il crocifisso nelle aule scolastiche (affermando un principio non circoscritto alla scuola, ma destinato a coinvolgere tutti i luoghi pubblici) non si è pronunciata l’Unione europea, attraverso una sentenza della Corte di Giustizia.
La decisione di cui si discute nasce, invece, nell’ambito del Consiglio d’Europa.
Il Consiglio d’Europa fu fondato con il Trattato di Londra del 5 maggio 1949. Si tratta di una organizzazione internazionale, cui originariamente appartenevano dieci Stati dell’Europa occidentale (oggi gli Stati membri sono divenuti quarantasette).
L’organizzazione ha l’obiettivo principale di “salvaguardare e promuovere gli ideali e i principi che costituiscono il loro patrimonio comune”; ogni Stato membro “riconosce il principio delle preminenza del diritto e il principio secondo il quale ogni persona soggetta alla sua giurisdizione deve godere dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali”. Secondo un modello che è molto diffuso tra le organizzazioni internazionali, il Consiglio d’Europa ha due organi: il Comitato dei ministri, in cui sono rappresentati i Governi attraverso i loro Ministri degli esteri, e l’Assemblea consultiva, un organo i cui membri sono eletti dai Parlamenti nazionali in numero che varia secondo la popolazione dello Stato stesso.
Nel 1950 il Consiglio d’Europa si fece promotore della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), un trattato che impegna gli Stati aderenti al rispetto di una carta dei diritti, rispetto garantito, appunto, dalla Corte dei diritti dell’uomo. Essa, su ricorso degli interessati, ha il compito di ripristinare i diritti violati, ma può anche condannare gli Stati responsabili della violazione a un indennizzo, quella che è stata definita una “equa riparazione”. La condanna non può consistere in un obbligo di fare.
La Corte che, come gli altri organi del Consiglio d’Europa, ha sede a Strasburgo, è composta da un giudice per ogni Stato, eletto dall’Assemblea su una lista di candidati proposti dal singolo Stato. Nel caso concreto, lo Stato italiano è stato solamente condannato a risarcire alla ricorrente signora Lautsi (che davanti alle Autorità giudiziarie italiane aveva visto rigettare le sue domande) la somma di cinquemila euro. L’Italia, quindi, non è stata condannata a rimuovere il crocifisso dalle aule scolastiche, come impropriamente si è detto.
Le sentenze della Corte sono esecutive e gli Stati firmatari della CEDU si sono impegnati a darvi esecuzione. Il controllo sull’adempimento di tale obbligo è rimesso ad un organo politico, il Comitato del ministri del Consiglio d’Europa, che – lo si deve ancora ripetere – è un’organizzazione indipendente dall’Unione europea.
La CEDU, tuttavia, è citata nei Trattati istitutivi della UE come dichiarazione dei diritti fondamentali, che vincolano anche gli atti delle istituzioni comunitarie.
Sull’efficacia della CEDU nell’ordinamento italiano e, in particolare, nel sistema delle fonti, le opinioni non sono unanimi nella dottrina costituzionalistica.
Un’interpretazione piuttosto riduttiva è stata offerta dalla Corte Costituzionale: “Poiché le norme CEDU non sono direttamente applicabili ai rapporti giuridici interni e le risoluzioni e raccomandazioni della Corte di Strasburgo si indirizzano soltanto agli Stati contraenti, i giudici italiani non possono risolvere il contrasto tra norme interne e norme CEDU, come interpretate dalla Corte di Strasburgo, procedendo a disapplicare le prime” (Corte costituzionale, 24 ottobre 2007, n. 349).
Immagino però che i lettori, al di là dei problemi giuridici posti dalla sentenza della Corte europea, desiderino conoscere la mia opinione sul merito della vicenda, sull’esposizione, cioè, del crocifisso nelle aule scolastiche e, in genere, nei luoghi pubblici.
Non posso, in proposito, che ricordare il pensiero di Piero Calamandrei, uno dei massimi giuristi dal XX secolo e laico integrale, il quale aveva proposto di affiggere, nelle aule di giustizia, il crocifisso non alle spalle ma davanti ai giudici, perché ricordasse loro le sofferenze e le ingiustizie inflitte ogni giorno a tanti innocenti.
Lo stesso Consiglio di Stato (contro la cui sentenza del 13 febbraio 2006 n. 556 è stato proposto il ricorso alla Corte europea) si è espresso sulla stessa lunghezza d’onda di Calamandrei ed ha affermato che il mantenimento del crocifisso nelle aule scolastiche, non viola il principio della laicità dello Stato in quanto la croce rappresenta e richiama valori civilmente rilevanti, quali la tolleranza, il rispetto reciproco, la valorizzazione della persona, l’affermazione dei suoi diritti, il rispetto della sua libertà, l’autonomia della coscienza nei confronti dell’autorità, la solidarietà umana, il rifiuto di ogni discriminazione, valori tutti che ispirano l’ordine costituzionale italiano. Il Consiglio di Stato aveva quindi sottolineato come in Italia l’esposizione del crocifisso non sia discriminatoria per i non credenti in quanto la croce è un simbolo capace di rappresentare e richiamare quei valori, civilmente rilevanti, che ispirano il nostro ordine costituzionale.
Sul crocifisso nelle aule scolastiche, così ebbe ad esprimersi la scrittrice Natalia Ginzburg, ebrea e non credente: “Il crocifisso non genera nessuna discriminazione. Tace. E’ l’immagine della rivoluzione cristiana, che ha sparso per il mondo l’idea dell’uguaglianza fra gli uomini fino ad allora assente… Perché mai dovrebbero sentirsene offesi gli scolari ebrei? Cristo non era forse un ebreo e un perseguitato morto nel martirio come milioni di ebrei nei lager? Nessuno prima di lui aveva mai detto che gli uomini sono tutti uguali e fratelli. A me sembra un bene che i bambini, i ragazzi lo sappiano fin dai banchi di scuola”.
(articolo pubblicato sul quotidiano "La Cronaca" nel gennaio 2010)

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