venerdì 8 ottobre 2010

IL 10 MARZO GLI AVVOCATI SONO IN SCIOPERO: IO NON ADERISCO

Oggi 10 marzo gli avvocati si astengono dalle udienze. La manifestazione è promossa dall’O.U.A. (Organismo unitario dell’avvocatura) e dalle principali associazioni forensi (fra cui le Camere penali), con il sostegno degli organismi istituzionali che governano gli avvocati italiani (Consiglio nazionale forense ed Ordini territoriali). Unica associazione contraria è l’U.G.A.I., che rappresenta parte dei giovani (l’altra associazione dei giovani, l’A.I.G.A., sembra essere favorevole all’iniziativa).
La manifestazione è intesa a sollecitare l’approvazione della legge di riforma dell’ordinamento professionale, già approvata dalla Commissione giustizia del Senato il 18 novembre 2009 ma, da allora, non ancora passata all’esame dall’aula del Senato.
Io sarò un incorreggibile bastian contrario, ma devo esprimere la mia contrarietà alla manifestazione.
Se dovessi pensare solo al mio particulare, potrei disinteressarmi totalmente della questione. Tra meno di un mese, infatti, compirò i 66 anni e, nel prossimo giugno, avrò alle spalle 41 anni di professione forense. Per di più, la mia agenda, per il 10 marzo, non prevede alcuna udienza.
Ciononostante, poiché ho sempre pensato che l’avvocato non possa limitarsi ad essere un puro tecnico del diritto, ma debba essere consapevole dei problemi della società in cui vive, non posso rinunciare ad esprimere la mia contrarietà al progetto di riforma.
Innanzitutto perchè la filosofia che ispira il disegno di legge è tesa al consolidamento del sistema degli Ordini professionali e della nomenklatura espressa dagli stessi, di lontana origine medioevale. Nel Medioevo, infatti, i gruppi professionali acquistano forza e potenza politiche: dopo la prima metà del XII secolo si ha una estensione delle corporazioni a tutti i rami delle attività produttive e professionali. Gli organismi corporativi sono autonomi di fronte allo Stato e vengono a costituire caste privilegiate munite di propri poteri a difesa degli interessi del gruppo.
Questa situazione dura sino alla Rivoluzione francese: nel 1791 si decreta lo scioglimento di tutte le corporazioni in nome della libertà di associazione e dell’autonomia dell’individuo.
Ma con Napoleone, nel 1810, si ricostituisce l’Ordine degli Avvocati, che viene sottoposto al controllo dello Stato, realizzandosi la prima disciplina pubblicistica di un gruppo professionale.
Nell’Italia postunitaria, la professione forense, dapprima disciplinata dalla Legge 8 giugno 1874 n. 1938, è oggi regolata dal R.D. 27 novembre 1933 n. 1578, cui, nel tempo, sono state apportate solo modifiche di non rilevante entità.
Eppure il respiro internazionale che la professione forense ha assunto, soprattutto negli ultimi cinquant’anni, con l’ingresso del nostro paese nella Comunità europea, richiede oggi una regolamentazione più moderna e dinamica, nella quale l’associazionismo forense e la collaborazione fra avvocati di diversi paesi e di diverse culture giuridiche dovrebbe trovare uno spazio adeguato.
Nell’ambito comunitario, la libertà di prestazione delle professioni e la libertà di stabilimento dei professionisti nel territorio degli Stati membri, costituiscono esercizio della libertà di circolazione dei lavoratori indipendenti, quale condizione, insieme alla libera circolazione dei servizi e dei capitali, necessaria per la realizzazione del mercato unico.
La filosofia della riforma (cui ha rivolto critiche caustiche il costituzionalista Roberto Bin sul sito internet Quaderni costituzionali) pare, invece, improntata ad una chiusura gretta e provinciale che ostacola l’ingresso dei giovani nella professione, senza garantire agli stessi quella preparazione di eccellenza, indispensabile per reggere la sfida europea.
Dell’accesso alla professione, del tutto svincolato dall’Università e concepito più come un percorso di guerra che come un iter di preparazione teorico-pratica, ho già avuto modo di parlare in passato su queste stesse colonne. Mi limiterò a dire che, se non condivido quanto previsto dalla riforma, non condivido neppure l’impostazione dell’U.G.A.I. (l’Unione dei giovani avvocati) che punta ad esami di accesso alla professione sempre più facili, con la possibilità per il candidato di escludere, dall’esame orale, le materie professionalmente più caratterizzanti (diritto civile, diritto penale, diritto processuale civile, diritto processuale penale).
Oltre che per la soluzione data ai problemi dell’accesso, la riforma è criticabile almeno sotto altri due profili.
Viene disciplinata per legge l’obbligatorietà della formazione permanente che, da quando è stata avviata, ha solo incrementato l’industria dei convegni e dei corsi a pagamento e si è risolta in una vera e propria vessazione ai limiti della costituzionalità. In violazione dell’articolo 23 della Costituzione, infatti, si impongono agli avvocati prestazioni patrimoniali (le quote -sovente non indifferenti - di iscrizione a convegni e corsi di formazione), la cui entità non è disciplinata dalla legge ma liberamente imposta da privati imprenditori, che hanno scoperto una facile e lucrosa fonte di guadagno.
Viene, poi, attribuito agli Ordini il potere di controllare, sulla base dei redditi percepiti, la continuità dell’attività professionale. Si tratta di una previsione normativa palesemente discriminatoria nei confronti di giovani ed anziani. Chi, infatti, è all’inizio o al termine del suo percorso professionale può facilmente trovarsi a percepire redditi minimi. Non capisco perché si debbano penalizzare costoro con una cancellazione dall’albo disposta d’autorità.
In conclusione, una ulteriore riflessione sul testo della riforma, auspicata, peraltro, dallo stesso Presidente del Senato Schifani, si rende quanto mai necessaria, anche perchè i palesi difetti del testo non sarebbero facilmente emendabili, una volta intervenuta, dopo anni di attesa, una sofferta approvazione del provvedimento.

(articolo pubblicato sul quotidiano "La Cronaca" nel marzo 2010)

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