martedì 14 settembre 2010

UNA MESSA VAL BENE LA CASSAZIONE

“Parigi val bene una messa” disse Enrico IV, quando gli fu fatto notare che, per ascendere al trono di Francia, avrebbe dovuto farsi cattolico.
Parafrasando quella celebre frase, si può oggi dire che una messa val bene un ricorso in Cassazione.
Infatti, una recente sentenza della Corte di Cassazione (Sez.III, 27 marzo 2007, n. 7449, pubblicata e commentata dalla rivista “Giustizia civile”) ha riguardato una fattispecie assai peculiare, che merita talune riflessioni, sia sul piano sociologico che su quello giuridico.
Ecco il fatto. A Verona, i figli di una persona defunta chiedono al parroco la celebrazione di una messa in suffragio del loro genitore. Per un errore del parroco (sono cose che a tutti possono capitare), la messa viene celebrata nel giorno fissato, ma in un’ora diversa da quella stabilita, e quindi in assenza di chi ne aveva richiesto la celebrazione (alle 8.30, anziché alle 18.30).
Costoro, rinunciando alla pur possibile ripetizione del rito di suffragio, citano in giudizio per inadempimento contrattuale il sacerdote preposto alla parrocchia e, non paghi della restituzione dell’offerta da loro versata (pari a ben dieci euro), chiedono la condanna dello stesso al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale da loro asseritamene sofferto.
Se si parla di inadempimento contrattuale, ciò implica che, fra i richiedenti la messa e il sacerdote, fosse intervenuto un contratto che, secondo la definizione contenuta nell’art. 1321 del codice civile, “è l’accordo di due o più parti per costituire, regolare o estinguere tra loro un rapporto giuridico patrimoniale”.
Ma è ovvio che, sul carattere patrimoniale del rapporto intercorso con il parroco, vi sono forti dubbi.
Non ci sono dubbi, invece, che una domanda siffatta (anche se tenacemente perseguita, sino alla Cassazione) cozzi, prima ancora che contro ragioni giuridiche, contro il buon senso, dato che al buon senso istintivamente ripugna che la giurisdizione dello Stato si occupi di un atto liturgico della Chiesa. I tempi del giurisdizionalismo di Giuseppe II, non a caso definito il “il re sacrestano”, sono ormai trascorsi da oltre due secoli.
Stupisce che, nel corso di ben tre gradi di giudizio, nessuno si sia posto il problema se fosse o meno proponibile una domanda siffatta.
Viene, infatti, da dire che, anche senza prendere in esame l’aspetto squisitamente spirituale della richiesta ad un sacerdote della celebrazione di una messa di suffragio, su un piano rigorosamente temporale, pare ci si trovi davanti ad una di quelle tante relazioni che le persone intrecciano fra loro in piena libertà e senza alcuna intenzione, nell’ambito del lecito, di sottoporle ai vincoli derivanti dall’ordinamento giuridico. Numerose, infatti, sono le vicende della vita quotidiana che si muovono e rimangono nella sfera del costume, delle convenienze sociali e dei rapporti di cortesia (dal passaggio in automobile all’invito a pranzo).
Il rapporto di cortesia rimane fuori dal diritto.
Lo stesso deve dirsi di quei rapporti che, riguardando la cura delle anime ed essendo, eventualmente, soggetti alle regole proprie dell’ordinamento canonico, sono anch’essi estranei all’ordinamento dello Stato.
Come è stato scritto nel commento alla sentenza, “in conclusione: nel fatto della mancata o non puntuale celebrazione di una messa di suffragio non è ravvisabile l’inadempimento di una obbligazione civile: né su tale fatto si può fondare il presupposto per la proponibilità di un’azione davanti al giudice dello Stato, il quale difetta in radice di giurisdizione, trattandosi di materia che è propria ed esclusiva dell’ordinamento canonico”.
E’ poi significativo quanto affermato dalla Cassazione, con riferimento al danno di cui i figli del defunto chiedono il risarcimento.
Peraltro, su questo punto, in sede di appello, il Tribunale di Verona aveva erroneamente affermato che il defunto, in suffragio del quale era stato comunque celebrato il rito, non era stato in ogni caso danneggiato; in proposito, giustamente, ha osservato la Cassazione che, in ipotesi, sarebbe stato leso il diritto dei figli di partecipare al rito.
Il Supremo Collegio ha statuito, al riguardo, che i figli del defunto, avuta in restituzione la somma offerta per il rito e non provata la sussistenza di un ulteriore danno patrimoniale, rispetto alla somma offerta per la celebrazione, non hanno diritto al risarcimento di un danno non patrimoniale.
La Cassazione ha ritenuto che, nella fattispecie, non è ravvisabile la lesione di un diritto fondamentale della persona, comportante la risarcibilità del danno non patrimoniale, ancorchè non ricorra un’ipotesi di reato (si tratta di quello che è stato definito come “danno esistenziale”).
Se, dalla vicenda, si vuole trarre quello che il Manzoni ebbe a definire “il sugo di tutta la storia”, si deve dire che, per una questione di carattere spirituale e del valore di dieci euro, da risolversi con un minimo di buon senso (sarebbe bastata la ripetizione del rito, cui il parroco avrebbe verosimilmente consentito), non pare giusto che si sia giunti sino alla Suprema Corte di Cassazione, coinvolgendo un totale di dieci magistrati.

(articolo pubblicato sul quotidiano "La Cronaca" nel luglio 2007)

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