venerdì 24 settembre 2010

LA POVERTA’ NON E’ UN REATO

Debbo confessarlo: con ogni probabilità, sono un buonista, un terribile buonista.
Buonista, secondo una terminologia in voga presso giornalisti che a profusione iniettano veleni nella società italiana, è chi, verso gli altri, nutre sentimenti di umana pietà, chi pensa che il rigore della giustizia debba talora essere contemperato con la compassione, chi si commuove davanti a taluni fatti della vita, chi non crede che i rapporti tra le persone debbano essere improntati al principio “homo homini lupus”.
Buonista, in particolare, è chi ritiene che il problema dell’immigrazione debba essere affrontato con razionalità e realismo, esaminando i fatti per quello che sono e non attraverso le lenti deformanti del pregiudizio ideologico, venato di xenofobia e di razzismo.
Tra qualche anno, fra il 2010 e il 2011, quando molti paesi europei avranno effettuato, con la consueta cadenza decennale, il loro censimento, sarà disponibile un nuovo e sorprendente ritratto dell’Europa.
Un continente trasformato, dove l’Est slavo, il Sud musulmano e africano e l’estremo Suboccidente latino americano si confonderanno come mai era successo da quando il Mediterraneo era un lago conteso fra culture diverse.
Da qualche tempo, si sta assistendo ad un fenomeno epocale. Dalle parti meno fortunate del mondo (Africa, Asia, America latina, Europa dell’est), milioni di diseredati si spostano verso i ricchi paesi dell’Europa occidentale e gli Stati Uniti. Il fenomeno può solo essere paragonato (anche se, probabilmente, ha una dimensione molto maggiore) alle migrazioni che, fra l’ottocento ed il novecento, vi furono dall’Europa (Italia, Germania, Irlanda, Polonia) verso gli Stati Uniti e, in misura più ridotta, verso l’Argentina, il Brasile e l’Australia.
Allora milioni di emigranti italiani, nell’arco di qualche decennio, abbandonarono le regioni meridionali ed il Veneto, spinti dalla volontà di crearsi una nuova vita. Dopo inenarrabili difficoltà, ora si sono integrati: negli Stati Uniti, la comunità italo-americana esprime senatori, giudici, uomini d’affari. Il modo di vita italiano, che non si esprime più negli spaghetti e nel mandolino, è divenuto l’”italian style”, più “trendy” e alla moda che mai.
Un secolo dopo, tocca ora alla vecchia Europa di essere assalita da ondate migratorie provenienti dai paesi poveri dell’Africa e dell’Asia, dell’Europa dell’est e delle regioni andine dell’America latina.
Come tutti i fenomeni epocali, anche questo è un fenomeno inarrestabile. Può solo essere governato con prudenza e saggezza, e non certo, come da taluni si dice ormai apertamente anche se non in pubblico, mandando le navi della Marina militare al largo della Sicilia, per respingere, a colpi di cannone, i barconi, carichi di immigrati inermi, di donne e bambini, che tentano di sbarcare sulle coste di Lampedusa o di Pantelleria.
La paura nei confronti degli immigrati è irrazionale, come la paura dell’uomo nero delle favole.
Già oggi essi sono indispensabili per il funzionamento dell’economia, perché accettano di svolgere (come un secolo fa gli italiani negli Stati Uniti) anche i lavori più umili per i quali gli italiani (che sognano, per il loro futuro, solo una scrivania) non sono più disponibili.
Ma, fra gli immigrati, vi sono anche molti tecnici e laureati, di cui vi è tanto bisogno.
Certo i loro costumi, le loro abitudini, il loro modo di comportarsi e talora di vestire, sono molto diversi dai nostri. Come un secolo fa, negli Stati Uniti gli immigrati provenienti dall’Irpinia, dal Sannio, dal Molise, dall’Aspromonte o dalle Madonie, erano diversi dalla classe dirigente wasp (white anglo saxon protestant) allora dominante.
Per questo resto perplesso di fronte alle misure invocate da taluni strati di opinione pubblica ed, in parte, inserite dal Governo nel recente “pacchetto sicurezza”, approvato dal Consiglio dei Ministri.
Il fenomeno dell’immigrazione va disciplinato e governato, ma, come ha scritto sul quotidiano “La Repubblica” Joaquim Navarro-Valls, non dimenticato portavoce di Giovanni Paolo II, “quando, alla fine, ad ispirare politiche repressive non è più la sanzione di un reato ma la discriminazione di un gruppo, si va verso una deriva molto pericolosa, destinata al porto sicuro della violenza reazionaria. Una persona … non riceve di fatto la propria dignità dalla cittadinanza, ma dall’appartenenza al genere umano. Per questo non è possibile togliergli dignità di cittadino senza compiere una violazione grave anche dei suoi diritti di uomo e di persona”.
Per questo, come si è espressa un’autorevole fonte vaticana, è necessario coniugare la sicurezza con l’accoglienza.
Sulla base di questi principi, mi sento di condividere le considerazioni del giurista Carlo Federico Grosso, che su “La Stampa” ha pubblicato un primo commento a caldo sulle misure, di carattere penale, contenute nel “pacchetto sicurezza”.
Così ha scritto Carlo Federico Grosso: “Altri provvedimenti sono invece palesemente inaccettabili. Non mi convince, ad esempio, l’introduzione del reato d’immigrazione clandestina, che rischia di trasformare assurdamente in un crimine, e per tutti, l’ingresso in Italia senza documenti regolari, o, ancora di più, la circostanza aggravante prevista per chi, clandestino, commette determinati delitti, discriminando in questo modo gli autori dei reati in ragione di una mera loro condizione personale. Mi preoccupa l’imposizione, sia pure a certe condizioni, ma senza adeguate garanzie, del prelievo del Dna in ipotesi di ricongiungimento familiare. Temo, soprattutto, che l’insieme dei provvedimenti ipotizzati fomenti ulteriormente xenofobia e razzismo, caccia alle streghe ed emarginazione, già pericolosamente esplosi in alcuni drammatici episodi d’inaccettabile violenza contro cittadini europei di etnia diversa dalla nostra”.
Vorrei concludere con una citazione. E’ tratta da un libro di Alexis de Tocqueville, “La democrazia in America”, scritto quasi due secoli fa e ormai diventato un classico.
L’ha ricordata, qualche tempo fa, Eugenio Scalfari in un suo editoriale su “La Repubblica”.
“Nella vita di ogni popolo democratico c’è un passaggio assai pericoloso, quando il gusto per il benessere materiale si sviluppa più rapidamente dell’abitudine alla libertà. Arriva un momento in cui gli uomini non riescono più a cogliere lo stretto legame che unisce il benessere di ciascuno alla prosperità di tutti.
Una nazione che chieda al suo governo il solo mantenimento dell’ordine è già schiava in fondo al cuore e da un momento all’altro può presentarsi l’uomo destinato ad asservirla. Non è raro vedere pochi uomini che parlano in nome di una folla assente o distratta e che agiscono in mezzo all’universale immobilità cambiando le leggi e tiranneggiando a loro piacimento sui costumi. Non si può fare a meno di rimanere stupefatti di vedere in quali mani indegne possa cadere anche un grande popolo”.


(articolo pubblicato sul quotidiano "La Cronaca" nel giugno 2008)

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