martedì 14 settembre 2010

LA CINA FRA LEGALITA’ SOCIALISTA, TRADIZIONE CONFUCIANA E PROPRIETA’ PRIVATA

L’Assemblea Nazionale del Popolo, il parlamento della Repubblica popolare cinese, il 16 marzo 2007, ha approvato un progetto di legge che garantisce il diritto alla proprietà privata.
Nell’ambito dei sistemi giuridici, si tratta di un fatto altamente simbolico, non inferiore, quanto a significato, al crollo del muro di Berlino.
Come ha scritto il quotidiano Shanghai Jiaiting Bao (ripreso in Italia da “Internazionale”, una interessantissima rassegna della stampa mondiale), questo progetto di legge, il più discusso di tutta la storia della Repubblica popolare, segna una tappa importante nella protezione dei beni privati da parte dello Stato. Il suo obiettivo principale è garantire ulteriormente gli interessi dei lavoratori e delle imprese, stimolare milioni di cinesi a creare e accumulare ricchezze e promuovere lo sviluppo delle forze produttive nella società.
Il periodico americano “The Nation” ha osservato che la legge sulla proprietà privata riguarda solo i diritti della nuova borghesia cinese delle grandi aree urbane, mentre non tutela gli interessi della maggioranza del popolo che ancora vive nelle campagne.
La legge è, tuttavia, significativa perché travolge uno degli ultimi baluardi del diritto dei paesi socialisti, che, in Europa, dopo il crollo dei regimi dell’est europeo, è ormai solo un ricordo.
Infatti, elemento fondamentale della legge è il riconoscimento del principio in base al quale la proprietà privata acquisisce lo stesso status giuridico di quella pubblica. E questa è veramente, per la Cina, una rivoluzione.
Come è facile immaginare, la Cina ha una tradizione giuridica assai diversa da quella europea, sia di “civil law” (propria dei paesi della tradizione romano-germanica) che di “common law” (propria dei paesi anglosassoni).
Come spiega Renè David nel suo bel volume “I grandi sistemi giuridici contemporanei”, la venerabile tradizione cinese era fondata sul confucianesimo.
La cellula di base era costituita dalla famiglia, organizzata gerarchicamente sotto l’autorità quasi assoluta del capofamiglia. Le collettività pubbliche e lo Stato stesso erano concepite sul modello della famiglia ed evitavano di intromettersi nel vasto dominio riservato alla famiglia stessa. Il dovere di ciascuno in ogni comunità e collettività era quello di vivere secondo i riti imposti ad ognuno dallo statuto che egli aveva nella comunità. L’osservanza dei riti prescritti dalla consuetudine era il principio che sostituiva in Cina quello della legge.
L’ordine della società doveva essere costruito individualmente, con un comportamento giusto, ragionevole, onesto e probo. Ciascuno doveva relazionarsi con tutti ed evitare individualmente la nascita di liti. La legge, in quanto strumento di risoluzione delle liti, era spia di una cattiva società che non riusciva individualmente a mantenere la pace sociale. Il buon magistrato era infatti considerato non colui che risolveva più casi conflittuali ma chi evitava il loro sorgere.
Come si sa, il 1° ottobre 1949, la Cina divenne, con la vittoria del Partito comunista guidato da Mao Zedong, una repubblica popolare. Furono aboliti, in blocco, tutte le leggi, tutti i decreti, tutti i tribunali esistenti.
L’opera di riorganizzazione fu realizzata sul modello sovietico.
Una Corte suprema popolare fu incaricata di dirigere i lavori di tutte le nuove giurisdizioni; venne ugualmente istituita una Prokuratura, la cui creazione sembrò annunciare l’affermazione del principio della legalità socialista.
Vennero poi promulgate leggi sul matrimonio, sulla riforma agraria, sui sindacati, sull’organizzazione giudiziaria, sulla punizione dei controrivoluzionari.
Fu anche messa in cantiere la redazione di codici (già dopo la rivoluzione del 1911, la Cina si era data codici manifestamente ispirati a modelli occidentali).
Ma ben presto si affermò il ritorno alla tradizione: si riteneva, infatti, che la pace sociale dovesse essere cercata in un’opera di educazione, in quanto bisognava ottenere che tutti consentissero alla formazione dell’ordine nuovo.
In Cina, quindi, non si è mai affermato in pieno il principio della legalità socialista, che ha contraddistinto il diritto dell’Unione Sovietica.
La legalità socialista, agli occhi dei giuristi sovietici, si distingueva dalla legalità propria dei sistemi giuridici occidentali. L’attributo socialista legittima l’obbligo di obbedire alle leggi e dà senso al principio di legalità. I cittadini sovietici dovevano ubbidire alle leggi perché esse erano giuste ed esse erano giuste perché lo Stato era uno Stato socialista, costituito nell’interesse di tutti, e non nell’interesse di una classe privilegiata.
Dopo il crollo del comunismo, con riferimento alla Federazione russa, agli altri Stati dell’ex Unione Sovietica ed ai paesi un tempo socialisti dell’est europeo (che ora sono quasi tutti entrati nell’Unione europea), il principio della legalità socialista è ormai solo un ricordo storico.
Permangono, invece, l’originalità e la complessità del sistema giuridico della Repubblica popolare cinese, caratterizzato da una tormentata convivenza tra teoria del diritto di derivazione sovietica, tradizione confuciana e diritto occidentale “borghese”.

(articolo pubblicato sul quotidiano "La Cronaca" nell'aprile 2007)

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