martedì 14 settembre 2010

LA CASSAZIONE DICE NO AI DANNI PUNITIVI

Nel sistema giuridico degli Stati Uniti, accanto ai “compensatory damages” (risarcimento di natura compensativa, in stretta relazione con il danno effettivamente subito), sono risarciti anche i “punitive damages”, che, assolvendo funzioni sanzionatorie e punitive, sono quantificati in modo anche notevolmente eccedente rispetto al danno effettivo.
Il caso che ha fatto epoca è quello della Philip Morris, la multinazionale del tabacco, condannata ad un risarcimento di 73 miliardi e 960 milioni di dollari. E’ la condanna più importante mai pronunciata negli Stati Uniti in tema di “punitive damages”. Ma anche l’esempio più significativo di un istituto che dà luogo a risarcimenti finalizzati a punire i responsabili di fatti illeciti particolarmente odiosi e riprovevoli, per prevenire il ripetersi di comportamenti analoghi e, sempre più spesso, con lo scopo di azzerare i guadagni ed i successi economici che operatori professionali scorretti e senza scrupoli conseguono illecitamente.
I danni punitivi sono stati riconosciuti dalla giurisprudenza delle corti inglesi a partire dal 1763. Dalla madrepatria l’istituto è stato quindi importato nell’America coloniale e si è poi trasferito nell’ordinamento degli Stati Uniti. Già nel 1852, la Corte Suprema dichiarava che una giuria può condannare il convenuto al risarcimento dei danni esemplari, punitivi o vendicativi, avuto riguardo alla gravosità dell’offesa, piuttosto che alla stretta misura dei danni prodotti.
Danni siffatti sono sconosciuti negli ordinamenti di “civil law”, propri dell’Europa continentale.
Ad esempio, l’art. 1223 del codice civile italiano stabilisce che “il risarcimento del danno … deve comprendere così la perdita subita dal creditore come il mancato guadagno, in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta”.
Funzione primaria del risarcimento è la compensazione del pregiudizio arrecato, la restaurazione (almeno per equivalente) della situazione del danneggiato antecedente all’illecito.
Se, quindi, i “punitive damages” sono sostanzialmente estranei all’ordinamento italiano, è da vedere se una sentenza di un giudice americano, che condanni un soggetto al risarcimento di danni punitivi, possa essere riconosciuta ed eseguita nell’ordinamento italiano.
La materia è regolata dalla Legge 31 maggio 1995 n. 218 (che ha riformato il sistema italiano di diritto internazionale privato).
Nell’ambito dell’Unione Europea, invece, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale è disciplinato dal Regolamento n. 44/2001 del 22 dicembre 2000. Con successivo Regolamento n. 805/2004 del 21 aprile 2004, è stato poi istituito il titolo esecutivo europeo per i crediti non contestati.
Per quanto attiene alla sentenza straniera pronunciata in paesi estranei all’Unione Europea (come gli Stati Uniti), secondo l’art. 64 della già citata Legge 31 maggio 1995 n. 218, “essa è riconosciuta in Italia senza che sia necessario il ricorso ad alcun procedimento”, fra l’altro quando “le sue disposizioni non producono effetti contrari all’ordine pubblico”.
Secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione, l’ordine pubblico è un concetto giuridico indeterminato, nel senso che il legislatore rinvia a criteri e conoscenze pregiuridiche per la sua determinazione.
Nell’ambito della disposizione sul riconoscimento delle sentenze straniere, il concetto di ordine pubblico che viene in gioco è quello dell’ordine pubblico internazionale, ossia l’insieme dei valori giuridici stimati come fondamentali da un ordinamento al punto che non si è disposti a rinunciarvi neppure nei rapporti con altri ordinamenti statali.
Nel caso in cui non operi il riconoscimento automatico, perché vi è contestazione del riconoscimento della sentenza straniera, secondo l’art. 67 della legge citata, “chiunque vi abbia interesse può richiedere alla Corte d’Appello del luogo di attuazione l’accertamento dei requisiti del riconoscimento. Questo procedimento è detto di delibazione.
Così è accaduto che la Corte di Cassazione, confermando una precedente pronuncia della Corte d’Appello di Venezia, ha avuto modo, in una recente sentenza della III Sezione civile (19 gennaio 2007, n. 1183) di pronunciarsi sulla riconoscibilità o meno, nell’ordinamento italiano, dei “punitive damages”.
La vicenda trae origine da un incidente stradale verificatosi in Alabama, negli Stati Uniti.
Il 17 settembre 1985, a seguito di collisione con un’autovettura che gli tagliava la strada, moriva per trauma cranico un giovane motociclista a causa di un difetto di progettazione e produzione della fibbia del casco protettivo che si staccava dal capo dell’infortunato al momento dell’urto con il veicolo.
La madre del giovane agiva per il risarcimento dei danni sia nei confronti del responsabile del sinistro (e del suo assicuratore), sia delle società produttrici e distributrici del casco, sia della società costruttrice della fibbia di allaccio del casco protettivo. La Corte distrettuale di Jefferson in Alabama, essendosi nel frattempo definite stragiudizialmente le posizioni degli altri convenuti, condannava il solo produttore italiano al pagamento, a titolo risarcitorio, di un milione di dollari.
L’attrice, al fine di fare eseguire il titolo, chiedeva al giudice italiano la delibazione della sentenza statunitense.
La Corte d’appello di Venezia con sentenza 10 ottobre 2001, n. 1359, rigettava l’istanza.
La sentenza della Corte d’Appello è stata ora confermata dalla Cassazione che, negando l’ingresso dei “punitive damages” nell’ordinamento italiano, ha stabilito il seguente principio: “Una sentenza statunitense di condanna a danni punitivi produce effetti contrari all’ordine pubblico e non può essere delibata. La funzione sanzionatoria e punitiva propria del risarcimento dei punitive damages contrasta con i principi fondamentali dell’ordinamento interno che assegna alla responsabilità civile funzioni esclusivamente compensative che precludono al danneggiato di lucrare somme eccedenti il danno effettivamente subito”.
La Corte di Cassazione ha seguito un precedente della Corte Suprema della Germania, che, con sentenza del 4 giugno 1992, aveva ritenuto la contrarietà all’ordine pubblico tedesco di una sentenza straniera di condanna a danni punitivi.
Seguendo un iter argomentativo in tutto simile a quello del giudice italiano, il giudice tedesco ha rilevato che l’ordinamento tedesco prevede quale conseguenza di un’azione illecita il solo risarcimento di natura compensativa del danno e non anche l’arricchimento del danneggiato giustificato dal perseguimento di finalità sanzionatorio-punitive che sono, per converso, riservate al diritto penale.

(articolo pubblicato sul quotidiano "La Cronaca" nel maggio 2007)

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