martedì 14 settembre 2010

IL VOTO ALLA FRANCESE: PER L’ITALIA, UN RITORNO ALL’ANTICO

Da anni si parla del sistema francese come di un sistema elettorale che utilmente potrebbe essere introdotto in Italia. Propugnatore di tale sistema (occasionalmente sostenuto da varie formazioni politiche) è Giovanni Sartori, il decano dei politologi italiani.
Anche per descrivere il sistema francese, come ho già fatto per il sistema tedesco, mi atterrò al recente volume “Costituzioni comparate”.
Il Parlamento francese è composto da due Camere, l’Assemblea nazionale ed il Senato. La prima è l’unica eletta a suffragio universale diretto e con facoltà di togliere la fiducia al Governo, mentre il Senato è eletto a suffragio indiretto ed è espressione delle autonomie territoriali.
Il sistema elettorale eventualmente da applicare in Italia è, quindi, quello dell’Assemblea nazionale.
Questa è composta da 577 deputati, eletti con un sistema elettorale maggioritario a doppio turno. Si tratta di un doppio turno a ballottaggio aperto. Ciò significa che in ciascun collegio elettorale si svolge un primo turno con la funzione di eliminare tutti quei candidati che non raggiungono una certa soglia (fissata attualmente nel 12,5% degli aventi diritto al voto in ogni singolo collegio), e un secondo turno che normalmente vede contendersi la vittoria due o al massimo tre candidati, mentre i partiti rimasti a bocca asciutta al primo turno fanno convergere i propri voti sui candidati più affini.
Il sistema fu introdotto da De Gaulle nel 1958, quando, in conseguenza della crisi algerina, fu approvata la Costituzione della V Repubblica. Nella precedente IV Repubblica, l’Assemblea nazionale veniva eletta con sistema proporzionale e, anche se il numero dei partiti non era particolarmente elevato (erano sette in tutto), le formazioni politiche, salvo i comunisti, avevano ben poca omogeneità interna, frantumandosi regolarmente nelle votazioni parlamentari. Di conseguenza, i governi erano assolutamente instabili: dal 1945 al 1958, si succedettero ben venticinque governi, il più duraturo dei quali, quello guidato dal socialista Guy Mollet, durò poco più di sedici mesi.
La formula elettorale introdotta da De Gaulle ha inciso profondamente sul panorama politico francese. I partiti si sono gradualmente adeguati ad essa, per concorrere fra di loro nella maniera più efficace. I politologi sono soliti definire l’attuale sistema dei partiti francesi come una quadriglia bipolare, cioè un sistema bipolare caratterizzato dalla presenza di quattro partiti, di cui due alleati in una coalizione di centro-sinistra e due in una coalizione di centro-destra.
A sinistra, vi sono socialisti e comunisti, a destra gollisti e centristi.
L’esperienza fa ritenere a non pochi osservatori che l’introduzione in Italia di un siffatto sistema elettorale potrebbe innescare, come in Francia, un meccanismo virtuoso di stabilità e di semplificazione del quadro politico.
Un fenomeno simile, peraltro, si è già verificato nel nostro paese, per quanto riguarda l’elezione dei Sindaci nei comuni con più di 15.000 abitanti.
La curiosità è che con un sistema simile già si è votato, prima nel Regno di Sardegna e poi nel Regno d’Italia dal 1848 al 1913, salvo che per il periodo dal 1882 al 1891.
L’evoluzione del sistema è stata efficacemente descritta da Giovanni Schepis nella voce “Storia dei sistemi elettorali in Italia” dell’”Enciclopedia del Diritto”.
Con la Legge 17 marzo 1848 n. 680, il territorio del Regno di Sardegna venne ripartito in 222 collegi uninominali. Per l’elezione al primo scrutinio si richiedeva il quorum di un terzo degli elettori e di oltre la metà dei votanti. Se per nessun candidato si verificavano tali condizioni si effettuava la votazione di ballottaggio fra i due candidati che avevano ottenuto il maggior numero di voti.
Il numero e la distribuzione dei collegi furono poi progressivamente rideterminati in ragione dell’annessione delle varie province al Regno d’Italia.
Nel 1859, nel 1891, nel 1898 e nel 1912 fu modificata la disciplina del quorum, ma il sistema, nelle sue linee essenziali, rimase invariato.
Fra il 1882 ed il 1891, fu, invece, introdotto un sistema diverso. Con il T.U. 24 settembre 1882 n. 999, i collegi uninominali, sino allora esistenti, vennero raggruppati in collegi plurinominali aventi 2,3,4 e 5 seggi. Nei collegi sino a quattro seggi gli elettori avevano facoltà di scrivere nella scheda tanti nomi quanti erano i deputati da eleggere (lista maggioritaria); nei collegi con cinque seggi gli elettori non potevano scrivere più di quattro nomi (voto limitato). Si stabilì un quorum pari ad un ottavo del numero degli elettori del collegio; venivano ammessi al ballottaggio i candidati che ottenevano i maggiori voti, in numero doppio dei seggi rimasti vacanti dopo il primo scrutinio.
Con la Legge 5 maggio 1891 n. 210, si tornava al collegio uninominale, sistema con il quale si votò sino al 1913, anno in cui fu anche introdotto il suffragio universale maschile.
Dopo la grande guerra (i cui quattro anni - come scrisse Giolitti - per la trasformazione sociale, contarono per un secolo), i tempi erano maturi per l’introduzione del sistema proporzionale.
Il collegio uninominale con doppio turno fu allora identificato come causa di tutti i mali della politica italiana, dal trasformismo alla scarsa partecipazione alle elezioni.
Come ricorda Maria Serena Piretti nel suo bel volume “Le elezioni politiche in Italia”, edito da Laterza, la proporzionale era voluta, innanzitutto, dai popolari e dai socialisti.
Per cattolici e socialisti la proporzionale doveva essere il filtro che permetteva ai partiti, intesi come l’istituzionalizzazione della capacità politica della società, di entrare nel circuito della gestione dello Stato ed influire direttamente sulla formazione del governo.
Con questo sistema, proporzionale con le preferenze, si votò nel 1919 e nel 1921 e poi, nel dopoguerra, per l’Assemblea Costituente e la Camera dei Deputati, sino al 1992.
Ironie della storia: dopo più di ottant’anni, le posizioni si sono ribaltate; il vecchio sistema uninominale a doppio turno è divenuto, grazie all’esperienza francese, un mito, mentre, nella proporzionale con le preferenze, si identifica il cancro della politica italiana che ha portato a tangentopoli ed alla rovina della prima repubblica.

(articolo pubblicato sul quotidiano "La Cronaca" nel marzo 2007)

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