martedì 14 settembre 2010

ELEZIONI IN SALSA SPAGNOLA

Il dibattito sulle possibili riforme elettorali continua.
Le varie formazioni politiche propongono sempre nuove formule, con varianti e sottovarianti, in un caleidoscopio vorticoso di proposte, che non sempre sono chiaramente comprensibili da parte degli elettori.
L’ultima novità (senza tener conto del sistema elettorale per i consigli regionali, familiarmente chiamato “tatarellum”, a sua volta proposto con varianti ed aggiustamenti) è il sistema spagnolo.
Del sistema politico spagnolo non si conosce molto.
Dopo la morte di Franco, avvenuta il 20 novembre 1975, la transizione verso la democrazia, sotto la saggia guida di re Juan Carlos, è stata quasi totalmente pacifica e senza traumi, fatta eccezione per l’endemico terrorismo basco dell’ETA.
Basti pensare che il primo governo della neonata democrazia spagnola fu guidato da Adolfo Suarez, che era stato l’ultimo segretario generale del “Movimiento”, il partito unico franchista. Un po’ come se il primo Presidente del Consiglio dell’Italia democratica fosse stato Achille Starace, o Martin Bormann il primo Cancelliere della Repubblica federale tedesca.
Dopo il rapido declino dei centristi di Suarez e degli eurocomunisti di Santiago Carrillo, si è formato un sistema bipartitico, che vede contrapposti il Partito socialista dell’attuale Premier Zapatero ed il Partito popolare di centro destra, del suo predecessore Aznar.
A questa rapida semplificazione del quadro politico, non è estraneo il sistema elettorale.
Anche per la descrizione di questo sistema, mi atterrò al recente volume “Costituzioni comparate”, edito da Giappichelli, che già ho avuto occasione di citare in precedenti articoli.
La legge organica sul regime elettorale, che risale al 1985, ha fissato in 350 il numero dei componenti del Congresso dei deputati (la Camera bassa delle Cortes, quella il cui sistema elettorale si vorrebbe importare in Italia).
La legge, altresì, ha previsto che il numero minimo di seggi per ogni provincia fosse pari a due e, tra le numerose formule elettorali che consentono di ripartire i seggi secondo un meccanismo proporzionale, ha scelto il sistema d’Hondt, che notoriamente favorisce i partiti maggiori, introducendo, altresì, una clausola di sbarramento che impedisce alle liste che non abbiano ottenuto almeno il 3% dei voti in sede circoscrizionale di partecipare all’assegnazione dei seggi.
Le liste sono chiuse e bloccate, senza possibilità di esprimere preferenze.
Tale sistema, a causa dell’elevato numero delle circoscrizioni (50, pari al numero delle province) e al non eccessivo numero di seggi in esse in palio, conduce a un riparto più di tipo maggioritario che proporzionale, sovrarappresentando i partiti dotati di maggiore seguito elettorale.
L’aspetto di tale sistema che appare meno convincente, se lo si immagina trasferito in Italia, è quello delle liste bloccate. Conoscendo come funziona il sistema politico nel nostro paese, possiamo facilmente immaginare liste decise esclusivamente dalla “nomenklatura” dei partiti, senza che gli elettori abbiano la minima possibilità di influenzare la scelta dei nomi.
Come ha scritto su “Il Sole 24 Ore” il politologo Piero Ignazi, è indifendibile un sistema che sia basato su liste bloccate di candidati, meccanismo che produce una forte distorsione della volontà popolare e una chiusura dei partiti rispetto agli elettori.
La lista chiusa, pur adottata anche in alcuni altri paesi, è in radicale contrasto con la domanda di maggiore apertura verso i cittadini e con una inclusione degli stessi nei processi decisionali. Sarebbe forse più accettabile se gli iscritti dei vari partiti potessero incidere direttamente nella composizione delle liste, com’è ormai regola in tutta Europa; al contrario, tutti i partiti italiani adottano un metodo verticistico e oligarchico nella scelta delle candidature, non tenendo in nessun conto non solo la voce degli iscritti ma anche quella delle strutture periferiche del partito.
Nel dibattito in corso, sulla lista bloccata, tutte le forze politiche sembrano, invece, essere d’accordo: in materia di proposte di riforma della legge elettorale è forse l’unica vera certezza bipartisan.
La situazione verrebbe peggiorata da un eventuale premio di maggioranza che, come sempre ha osservato Piero Ignazi, fornirebbe un bonus sganciato dalla rappresentatività effettiva, nell’elettorato, della lista o della coalizione vincente. I seggi in più che i vincitori ottengono somigliano a un bottino sottratto a meccanismi equi di rappresentatività. Non a caso, nessun paese europeo lo adotta.
Quando leggiamo di siffatte proposte, ci rendiamo conto di essere di fronte ad una ulteriore conferma di un distacco e di una sostanziale incomprensione tra cittadini e classe dirigente politica, che, in modo assolutamente autoreferenziale, sembra parlare solo per se stessa e per i giornalisti della televisione e della carta stampata.

(articolo pubblicato sul quotidiano "La Cronaca" nell'aprile 2007)

Nessun commento:

Posta un commento