mercoledì 15 settembre 2010

DEMOCRAZIA DEI PARTITI, DEMOCRAZIA NEI PARTITI

“La democrazia dei partiti e la democrazia nei partiti” è il tema di un interessante convegno svoltosi qualche settimana fa a Firenze, con la partecipazione di illustri costituzionalisti e politologi, che mi ha dato lo spunto per alcune riflessioni.
Infatti, i partiti politici hanno avuto un ruolo fondamentale nel funzionamento della democrazia italiana del dopoguerra.
Uno storico illustre, Pietro Scoppola, purtroppo scomparso qualche giorno fa, nel pubblicare, nel 1991, alla vigilia di tangentopoli, un suggestivo profilo storico della democrazia in Italia, lo intitolò, non a caso, “La repubblica dei partiti”.
Scriveva Scoppola nella prefazione: “La democrazia italiana non poteva nascere (o riprendere un cammino appena iniziato) nel secondo dopoguerra che come democrazia dei partiti; ma questo tipo di democrazia ha dimostrato la sua insufficienza, la sua incapacità di rispondere ai problemi del paese ed è giunto ad un punto di crisi non reversibile”.
Questa è la riflessione di uno storico. Le riflessioni dei giuristi non possono che prendere le mosse dall’articolo 49 della Costituzione, secondo cui “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberalmente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”.
L’articolo 49 è incentrato sulla visione dei partiti quali libere associazioni di cittadini. La scelta dei costituenti fu motivata dal rifiuto del modello di partito totalizzante, tipico del fascismo (nel quale il segretario del partito ricopriva, in forza del suo ruolo, la carica di ministro).
I quasi sessant’anni di democrazia repubblicana sono stati caratterizzati dalla contraddizione fra il riconoscimento costituzionale del sistema dei partiti essenzialmente come diritto di libertà dei singoli e la dimensione istituzionale dei partiti che è andata via via crescendo.
Già nel 1949, il costituzionalista Giuseppe Maranini coniò il termine partitocrazia, destinato a conoscere un’enorme diffusione.
Giuseppe Maranini fu fortemente osteggiato, dalla cultura politica allora dominante, per le battaglie da lui condotte contro la partitocrazia.
Ma una conferma della giustezza dell’analisi di Maranini è ora venuta da una fonte assolutamente insospettabile, Francesco Cossiga. Nel suo recentissimo volume “Italiani sono sempre gli altri” (riflessioni controcorrente sulla storia d’Italia da Cavour ai giorni nostri), l’ex Presidente della Repubblica, riferendosi all’ascesa al potere di Fanfani nella Democrazia Cristiana dopo la scomparsa di De Gasperi, scrive con spietata crudezza: “La Dc diventa un partito senza leader, regolato da un sistema di potere basato su uno statuto reale senza uguali in tutta la storia dei partiti democratici. Infatti, se nel decisivo decennio degasperiano è il governo a stabilire il suo primato sul partito, dopo il … 1956 … sarà il partito il perno del potere. Quasi come in Russia!”.
Francesco Cossiga ha quindi avuto il coraggio di ammettere che, nel sistema politico italiano, a differenza che negli altri sistemi occidentali, è storicamente prevalsa (e non solo nei partiti di sinistra, ma anche nella Democrazia Cristiana) una concezione leninista del partito, destinato a guidare la società ed a indirizzare le istituzioni, sulle quali sempre prevaleva.
Non un “partito di popolo”, secondo la concezione degasperiana, ma un “partito di sezioni”, per rifarsi allo schema del sociologo francese Maurice Duverger, il maggiore studioso contemporaneo dei partiti politici.

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Chi scrive, un quarto di secolo fa, ebbe la ventura di ricoprire, per poco più di due anni, un ruolo di vertice, a Cremona, in un partito politico scomparso dopo la tempesta di tangentopoli. E’ un’esperienza che non rinnego (e come potrei? è parte della mia vita), ma neppure rimpiango. Un’esperienza comunque lontanissima dai miei attuali interessi professionali e culturali. Al termine di tale esperienza, qualcuno ebbe l’amabilità di sprezzantemente definirla “chiusa ed irripetibile” (mentre “chiusa ed irripetibile” è oggi la vicenda di quel partito politico, con i suoi gruppi di potere interni, che sembravano destinati a durare per l’eternità), anche perché, in quegli anni, nei quali già percepivo, sia pure in modo confuso, la crisi che avrebbe travolto, di lì ad un decennio, l’intero assetto dei partiti, mi comportai come una variabile impazzita del sistema, non accettando il codice di regole non scritte che governava, all’epoca, la vita interna delle forze politiche.
Da quella concreta esperienza, tuttavia, ho tratto un insegnamento che ancor oggi giudico prezioso. Il limite che allora condizionava la vita dei partiti era il dominio pressoché assoluto delle oligarchie interne, senza alcun rispetto per i principi democratici. In altre parole, la “democrazia dei partiti” escludeva del tutto la “democrazia nei partiti”.
Eppure la dottrina costituzionalistica, dalla previsione, contenuta nell’articolo 49, del metodo democratico con cui i partiti concorrono a determinare la politica nazionale, aveva fatto derivare conseguenze anche sul piano dell’organizzazione interna dei partiti.
Da questa prospettiva, si è individuato, nel concorso con metodo democratico, prima di tutto un diritto dei cittadini: essendo il partito strumentale rispetto al fine di assicurare la più ampia partecipazione al determinare la politica nazionale, i partiti debbono soddisfare, nella propria articolazione interna, i requisiti minimi per rispondere al concetto di democrazia fatto proprio dalla Costituzione.
Al contrario, nel corso degli anni, il legislatore ha optato per una linea di non intervento nella vita organizzativa dei partiti, che continua a trovare la propria disciplina nelle scarne disposizioni del codice civile e negli statuti, spesso disattesi, delle singole formazioni politiche.

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Con l’avvento di quella che ormai siamo abituati a chiamare la seconda repubblica, alcuni partiti storici sono scomparsi, nuove formazioni politiche sono nate e si sono sviluppate, ma, soprattutto, si è indebolito il ruolo istituzionale dei partiti, con il definitivo tramonto del modello leninista di partito.
In particolare, risulta oggi fortemente indebolita la configurazione del partito politico quale libera formazione sociale e principale tramite della partecipazione democratica dei cittadini alla vita politica del paese. I partiti sembrano, tuttavia, restare organizzazioni a tutt’oggi insostituibili per lo svolgimento di alcune funzioni fondamentali del processo rappresentativo, come la selezione della classe dirigente. Le carenze nell’assolvimento di tali funzioni si traducono immediatamente in disfunzioni gravi delle istituzioni rappresentative. Di qui le proposte per l’introduzione, sul piano costituzionale o della legislazione ordinaria, di norme idonee a garantire livelli minimi alle formazioni partitiche, anche per quanto riguarda la loro democrazia interna. Ma norme di tal genere non hanno mai avuto alcuna attuazione concreta.
Il vero banco di prova per il successo di queste iniziative di riforma è naturalmente rappresentato dall’individuazione di un difficile punto di equilibrio tra le esigenze di una maggiore regolamentazione e trasparenza e la necessità di evitare un’eccessiva “incorporazione istituzionale” dei partiti nello Stato.

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In questo quadro, si colloca il processo di formazione del nuovo Partito democratico, del quale siamo spettatori in queste settimane.
Pur con molte incertezze, che non ho mancato di sottolineare in un mio precedente intervento, con il Partito democratico, tramontato definitivamente il modello leninista, sembra nascere una formazione politica del tutto nuova, almeno con riferimento a quella che viene chiamata dai politologi la “forma partito”. Gli organi dirigenti sono stati scelti, infatti, con un’amplissima consultazione popolare, mentre, per il futuro, si parla, addirittura, di partito senza tessere.
Pare, quindi, destinato a nascere ed affermarsi un partito che, nella tradizione italiana, appare completamente diverso dai partiti conosciuti nel passato, e che può essere fecondo di positivi risultati per la democrazia nel nostro paese.
Ma come ha scritto Pietro Scoppola nel suo volume, che già è stato citato all’inizio, il passaggio da una “repubblica dei partiti” ad una “repubblica dei cittadini” è “tanto più arduo e difficile perché coinvolge questioni di mentalità e di cultura e non solo problemi istituzionali”.
Restituire lo scettro al principe, e cioè al cittadino elettore, secondo la fortunata espressione coniata dal politologo Gianfranco Pasquino, costituisce la sfida dei prossimi anni.


(articolo pubblicato su "La Cronaca" nell'ottobre 2007)

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