martedì 14 settembre 2010

DA ALDO MORO A LELE MORA. IL RISCHIO DI DIMENTICARE

Ricorre oggi 9 maggio il ventinovesimo anniversario della morte di Aldo Moro, assassinato dalle Brigate Rosse il 9 maggio 1978.
Quando ad un giovane si parla di Aldo Moro, come di Churchill, Roosevelt, Stalin, Kennedy o anche di Reagan e Gorbaciov, sembra di parlare di un personaggio di tempi lontanissimi, come Napoleone, Giulio Cesare o Alessandro Magno.
Eppure è stato uno dei protagonisti dell’Italia del secondo dopoguerra. Chi era, dunque, Aldo Moro? Di origini pugliesi (era nato a Maglie, in provincia di Lecce, nel 1916), era un austero professore di diritto e procedura penale nella Facoltà di Scienze Politiche dell’Università “La Sapienza” di Roma, dall’eloquio difficile e dalla sintassi complessa, sempre vestito in doppiopetto scuro, camicia bianca e cravatta scura (non apparve mai in pubblico con un maglioncino di cashmere o una bandana, come Berlusconi, e neppure in costume da bagno come Prodi o Fini).
Aveva una bella famiglia, sconosciuta al grande pubblico prima del suo rapimento. Non era divorziato, non conviveva, non aveva figli naturali.
Fu ministro della Giustizia e della Pubblica istruzione, segretario della Democrazia Cristiana, più volte Presidente del Consiglio e ministro degli Esteri. Al momento del suo rapimento da parte di un commando di terroristi, era presidente della D.C.
Non fu forse un grande uomo di governo (Amintore Fanfani, l’altro “cavallo di razza” della D.C. fu, molto probabilmente, più concreto e realizzatore di lui), ma fu un abilissimo stratega politico.
Negli ultimi anni della sua vita, fu uno dei leader politici che maggiormente prestarono attenzione alla politica del compromesso storico di Enrico Berlinguer, che pubblicamente aveva fatto lo strappo con Mosca, rendendosi quindi accettabile agli occhi democristiani. Il segretario del P.C.I. aveva, infatti, proposto una innovativa solidarietà politica fra comunisti, socialisti e cattolici, in un momento di profonda crisi economica, sociale e politica in Italia.
All’inizio del 1978 Moro, allora, come si è ricordato, presidente della Democrazia Cristiana, fu l’esponente politico più importante fra coloro che individuarono in un governo di “solidarietà nazionale”, la formula che includesse anche il P.C.I., sia pure senza suoi ministri.
Ma Moro non era certo un filocomunista. Politicamente piuttosto conservatore, fu uno strenuo difensore del ruolo della Democrazia Cristiana.
In un celebre discorso parlamentare, pronunciato in difesa di Luigi Gui, accusato per lo scandalo Lockheed, difese l’operato della D.C. e dei suoi uomini, pronunciando una frase “non ci lasceremo processare nelle piazze” che divenne famosa ed emblematica di un certo periodo e di un certo modo di pensare.
Purtroppo, però, Aldo Moro non è oggi ricordato per il suo ruolo politico e di governo, ma piuttosto per la sua tragica fine.
Se debbo indulgere a qualche ricordo personale, non posso nascondere come il rapimento di Moro e l’uccisione della sua scorta, i cinquantacinque giorni della sua prigionia ed, infine, la sua morte abbiano lasciato su di me una traccia profonda.
Ho ancora nella memoria la voce di quel brigatista (credo Valerio Morucci) che ripeteva al telefono “Via Caetani”, per indicare il luogo dove era stata lasciata la R4 rossa, con il corpo di Moro nel bagagliaio.
Ho ancora nella memoria la voce roca e tremante di Paolo VI, il vecchio Papa che di Moro era amico personale, che rivolgeva un ultimo disperato appello agli “uomini delle Brigate Rosse”.
Quando vado a Roma e appena mi è possibile, mi accade di recarmi in Via Castani, una modesta strada del centro storico, traversa di Via delle Botteghe Oscure, per raccogliermi in silenziosa preghiera davanti alla lapide che ricorda il tragico evento.
Sul rapimento e l’assassinio di Moro molto è stato detto e scritto. Furono celebrati diversi processi (quattro, se la memoria non mi inganna) e furono inflitte pesanti condanne, ma si è ancora molto lontani dal conoscere tutta la verità.
Ricordo anche di aver visto un bel film, “Piazza delle cinque lune” (è la denominazione della piazza da cui prendeva il nome la casa editrice della D.C.), palesemente, però, opera di fantasia.
All’epoca dei fatti, condivisi anch’io, come gran parte della stampa e dell’opinione pubblica, la “linea della fermezza” sostenuta da Andreotti, Zaccagnini, Berlinguer, La Malfa, contraria a qualsiasi trattativa con i terroristi.
Con il passare degli anni, tuttavia, mi è capitato più volte di domandarmi se la linea trattativista di Craxi, Pannella e Fanfani, non avrebbe consentito, forse, di salvare la vita di Moro, senza contemporaneamente affossare le istituzioni.
Una decina di giorni fa, poi, ho acquistato e visto il dvd “Avvocato!”, pubblicato dal quotidiano “La Stampa” e riguardante il processo al nucleo storico delle Brigate Rosse, svoltosi a Torino fra il 1976 e il 1978, e che fu all’origine, il 28 aprile 1977, dell’assassinio di Fulvio Croce, presidente del consiglio dell’Ordine degli avvocati di Torino.
Rivivendo, attraverso le immagini in bianco e nero, il clima di allora, mi sono reso conto che la linea di fermezza democratica, adottata dal Governo e dai principali esponenti politici, contribuì a salvare l’Italia dal terrorismo e ad impedire, al nostro paese, un’esperienza di tipo argentino.
Ascoltando il brigatista Franceschini rievocare, trent’anni dopo, con disinvoltura e atteggiamento quasi soddisfatto da reduce, l’assassinio dell’avvocato Croce e quello del Procuratore generale di Genova Coco, avvenuto l’anno precedente, ho capito che lo Stato, nella sua saggezza, può, per chiudere la tragica pagina degli “anni di piombo”, perdonare, ma non può dimenticare. I brigatisti non sono i reduci di una guerra da loro perduta, cui rendere l’onore delle armi, ma sono assassini. Ha, quindi, ragione la vedova dell’appuntato Domenico Ricci, assassinato in Via Fani, con la scorta di Moro, a dichiarare ai giornali: “Mentre i brigatisti danno interviste, concionano in tv, tengono lezioni all’università o entrano in parlamento per la porta principale, noi, vittime del terrorismo, soffriamo in silenzio da 29 anni. Io personalmente sono andata in Senato per chiedere aiuto per mio figlio che ho fatto studiare con grande sacrificio e che ha due lauree, ma non lo hanno preso. I brigatisti invece stanno lì”.
Non mi risulta che il presidente del Senato Marini abbia risposto alcunché. Ma, forse, mi sarà sfuggita la sua replica.
Infatti, a ventinove anni dalla tragica morte di Moro e degli agenti della sua scorta, delle vittime del terrorismo nessuno si ricorda più, mentre uno dei personaggi che dominano le cronache dei giornali è tale Lele Mora.
Lele Mora è un ex parrucchiere che si è inventato l’improbabile mestiere di agente dei vip. Questi vip sono, per lo più, oltre che calciatori e veline, ragazzotti e puttanelle, senza arte né parte, che non sanno né recitare, né cantare, né ballare, ma che, grazie a Lele Mora, pensano di avere un radioso futuro nel mondo della televisione e dello spettacolo.
Un mondo dove l’apparire ha soppiantato l’essere e l’immagine ha preso il posto della realtà.
Ma non dimentichiamo che, se oggi vi è spazio per personaggi come Lele Mora, lontani anni luce da Aldo Moro, il merito è anche della fermezza con cui le istituzioni hanno saputo battere il terrorismo e restituire al paese condizioni di normalità, facendolo uscire da quella che fu definita la “notte della Repubblica”.
Per questo, persone come Andreotti, Zaccagnini, Berlinguer, La Malfa, Cossiga, Pertini, la più alta espressione delle istituzioni negli “anni di piombo”, meritano, al di là delle diverse opinioni politiche, la riconoscenza ed il rispetto degli italiani.
Come meritano riconoscenza e rispetto i magistrati, gli avvocati, gli agenti delle forze dell’ordine, i giornalisti (due nomi fra tutti: Carlo Casalegno e Walter Tobagi), caduti sotto il piombo dei terroristi.

(articolo pubblicato sul quotidiano "La Cronaca" nel maggio 2007)

Nessun commento:

Posta un commento