venerdì 24 settembre 2010

COME LA CASSAZIONE HA SALVATO LE ELEZIONI

Il dibattito sui risultati elettorali ha messo in secondo piano un fatto che, se non fosse stato risolto dalla Corte di Cassazione, avrebbe potuto mettere a repentaglio lo svolgimento regolare delle consultazioni.
I lettori ricorderanno certamente i fatti. Il partito della Democrazia Cristiana (una micro formazione politica il cui unico legame con la D.C. sciolta nel 1994 è costituito dalla titolarità del simbolo dello scudo crociato, a seguito di complesse vicende giudiziarie, ancora non definitivamente risolte, che non è qui il caso di riassumere) era stato escluso dalla competizione proprio per il simbolo, che, secondo il Ministero dell’Interno “contiene elementi letterali, grafici e cromatici … confondibili con elementi caratteristici del simbolo usato tradizionalmente da altro partito presente in Parlamento e depositato” (si tratta del simbolo dell’U.D.C.).
Essendosi verificata la violazione dell’articolo 14, commi 3,4 e 6, del D.P.R. 30 marzo 1957 n. 361, il provvedimento del Ministero veniva confermato dall’ufficio elettorale centrale, costituito presso la Corte di Cassazione, in data 8 marzo 2008.
Sosteneva l’ufficio elettorale centrale che la normativa violata, indipendentemente dalla titolarità, sotto il profilo privatistico, dei segni distintivi dell’originaria Democrazia Cristiana, è “volta a garantire una corretta scelta dell’elettore, immune da sviamenti o confusioni, verso una determinata forza politica, con tutela quindi dell’affidamento identitario – che questi può ragionevolmente effettuare attraverso il riscontro, appunto, di segni, simboli o parole – nell’immagine socialmente acquisita da un determinato partito”.
Nessun errore vi era stato, quindi, come, con una sciocca polemica, si sarebbe detto qualche settimana più tardi, né da parte del Ministero dell’Interno, né, tanto meno, da parte di Giuliano Amato personalmente (il ministro, peraltro, è anche un raffinato giurista).
Il partito della Democrazia Cristiana, assumendo che il provvedimento dell’Ufficio elettorale centrale fosse un normale atto amministrativo, lo impugnava davanti al TAR per il Lazio, proponendo, altresì, istanza cautelare (la cosiddetta “sospensiva”), al fine di ottenere l’ammissione della lista in tempo utile per poter partecipare alle consultazioni elettorali già fissate.
L’istanza veniva rigettata dal TAR (con ordinanza del 20 marzo 2008, n. 1618), ma il provvedimento veniva riformato dalla V Sezione del Consiglio di Stato in data 1° aprile 2008, con ordinanza n. 1744. L’ordinanza del Consiglio di Stato, motivata in modo assai sintetico, rilevava che la questione era attinente “non alla verifica dei titoli di ammissione dei componenti, riservata ai competenti organi delle camere, ma alla ammissione delle liste”.
Ciò premesso, considerato che le controversie relative alla fase antecedente le elezioni “in quanto aventi ad oggetto atti amministrativi, devono ritenersi rientranti nella giurisdizione del giudice amministrativo”, accoglieva l’appello e disponeva l’ammissione della lista della Democrazia Cristiana alla consultazione elettorale.
Il Consiglio di Stato, nel decidere, si richiamava ad una precedente ordinanza del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana (6 aprile 2006, n. 218), che aveva affermato il seguente principio: “Sussiste la giurisdizione di legittimità del giudice amministrativo in ordine alle controversie relative alla mancata ammissione alle liste elettorali per partecipare alle elezioni politiche nazionali”.
A questo punto, come i lettori ricorderanno, la situazione si era fatta davvero ingarbugliata: da un lato, infatti, il partito della Democrazia Cristiana, riammesso alle elezioni in forza di un provvedimento giurisdizionale, esecutivo ma non definitivo (e quindi sempre modificabile nel successivo giudizio di merito davanti al TAR ed al Consiglio di Stato), si doleva, giustamente, di non aver avuto a disposizione, per la campagna elettorale, lo stesso tempo delle altre formazioni politiche; dall’altro lato, la Costituzione, all’articolo 61, dispone che “le elezioni delle nuove Camere hanno luogo entro settanta giorni dalla fine delle precedenti” e quello fissato per le elezioni era l’ultimo fine settimana utile per le consultazioni, senza che fosse eluso il termine costituzionale.
Ad onor del vero, il Ministro Amato, sbeffeggiato da politici ignoranti e giornalisti faziosi, cui non pareva vero di potergli attribuire personalmente la responsabilità del caos che si profilava all’orizzonte, sostenne, da subito, che il Consiglio di Stato non aveva giurisdizione sulla questione. Amato, infatti, non poteva non aver presente un precedente giurisprudenziale, con il quale la Corte di Cassazione aveva statuito il seguente principio: “Pur riconoscendosi natura amministrativa agli atti degli Uffici elettorali circoscrizionali e centrali, sussiste il difetto assoluto di giurisdizione, sia del giudice ordinario che del giudice amministrativo, su tali atti, con riguardo al regolare svolgimento delle operazioni elettorali, e in particolare, in relazione a quelle attività che hanno preceduto la convalida degli esiti delle elezioni, la cui attribuzione è rimessa a ciascuna Camera, con un giudizio definitivo sui reclami avverso la ricusazione delle liste e sugli effetti di questi provvedimenti in ordine alla convalida stessa delle elezioni” (Cass., Sezioni unite, 6 aprile 2006, n. 8118).
L’orientamento della Cassazione è fondato sull’articolo 66 della Costituzione, secondo cui “ciascuna camera giudica dei titoli di ammissione dei suoi componenti”.
Conseguentemente, l’Avvocatura dello Stato, per conto del Ministero dell’Interno e dell’Ufficio elettorale centrale, proponeva ricorso per cassazione, chiedendo che fosse dichiarato, nella fattispecie, il difetto assoluto di giurisdizione, non essendovi né la giurisdizione del giudice amministrativo, né quella del giudice ordinario.
Stante l’urgenza (le elezioni dovevano svolgersi dopo pochi giorni), il ricorso veniva discusso all’udienza dell’8 aprile e la sentenza veniva depositata nel pomeriggio del medesimo giorno (Sezioni unite, 8 aprile 2008, n. 9151).
La Cassazione, uniformandosi alla propria precedente giurisprudenza, dichiarava, in accoglimento del ricorso, il difetto assoluto di giurisdizione, ponendo quindi nel nulla l’ordinanza con la quale il Consiglio di Stato aveva ammesso alle elezioni il partito della Democrazia Cristiana.
Così si afferma nella sentenza: “Proprio facendo leva su questa disposizione, attuativa del principio di autodichia delle Camere, espresso dall’art. 66 Cost., questa Corte ha già avuto modo di affermare che ogni questione concernente le operazioni elettorali, ivi comprese quelle relative all’ammissione delle liste, compete in via esclusiva al giudizio di dette Camere, restando così preclusa qualsivoglia possibilità di intervento in proposito di qualsiasi autorità giudiziaria”.
Le elezioni, già fissate per il 13 e 14 aprile, potevano quindi svolgersi regolarmente.
Ma i problemi giuridici posti dal ricorso del partito della Democrazia Cristiana sono, in verità, tutt’altro che risolti.
Come, infatti, la stessa sentenza delle Sezioni unite ha ammesso, vi è talora stato, in passato, un diverso orientamento assunto dalle Giunte parlamentari. La Cassazione ha risolto il problema sostenendo che “è la giunta nominata dalla Camera parlamentare risultante dalla nuova elezione a doversi pronunciare sulla questione”.
Resta il fatto che la questione dell’ammissione delle liste elettorali è alla ricerca di un giudice, in quanto il demandare alla giurisdizione della Camera ancora da eleggere la tutela in ordine agli atti relativi alla presentazione delle liste, rischia di rendere tale tutela priva di effettività. Mentre pienezza ed effettività della tutela giurisdizionale sono un valore costituzionalmente garantito.
Infatti, non è ipotizzabile in concreto che una Camera, anche di fronte ad illegittimità nel procedimento di presentazione delle liste (come, ad esempio, quella lamentata dal partito della Democrazia Cristiana), possa disporre la ripetizione delle elezioni già svolte.
Ci si domanda, quindi, se il tradizionale approccio della Corte di Cassazione che, sulla base di una lettura ampia dell’art. 66 della Costituzione, ha sempre confermato la spettanza esclusiva alle Camere del potere di sindacare la regolarità e la validità degli atti “pertinenti all’intera sequenza procedimentale che dalla presentazione delle liste conduce alla proclamazione degli eletti”, sia coerente con l’ordinanza della Corte Costituzionale in data 23 marzo 2006 n. 117. Con tale ordinanza, il Giudice delle leggi escludeva la possibilità di “introdurre un nuovo tipo di giudizio costituzionale, avente ad oggetto la procedura di elezione delle Assemblee” attraverso il riconoscimento ai partiti politici della legittimazione a sollevare conflitto di attribuzioni fra i poteri dello Stato (la cui soluzione compete alla Corte Costituzionale), ma riconoscendo, implicitamente, che tale tipo di giudizio sarebbe, purtuttavia, necessario.


(articolo pubblicato sul quotidiano "La Cronaca" nell'aprile 2008)

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