mercoledì 15 settembre 2010

“AUCAAT SE LA GHES DE ANDAA BEEN, FUM A MES”

Non poche volte, nella mia ormai quasi quarantennale esperienza di avvocato, mi sono sentito fare, da un cliente, una proposta del genere.
La proposta, cioè, di avere, come compenso, una quota consistente, magari addirittura la metà, della somma recuperata a seguito di una controversia giudiziaria.
Ogni volta ho rifiutato ed ho cercato di spiegare al cliente che la proposta fattami si concretava in un patto di quota lite, vietato dalla legge.
Il terzo comma dell’articolo 2233 del codice civile stabiliva, infatti, che “gli avvocati, i procuratori e i patrocinatori non possono, neppure per interposta persona, stipulare con i loro clienti alcun patto relativo ai beni che formano oggetto delle controversie affidate al loro patrocinio, sotto pena di nullità e dei danni”.
Il divieto del patto di quota lite è un istituto assai risalente nel tempo ed era già previsto nei codici preunitari.
Il divieto, del tutto sconosciuto, invece, nei paesi anglosassoni, trova il suo fondamento nell’esigenza di assoggettare a disciplina il contenuto patrimoniale di un peculiare rapporto di opera intellettuale, al fine di tutelare l’interesse del cliente e la dignità e la moralità della professione forense, che risulterebbe pregiudicata tutte le volte in cui, nella convenzione concernente il compenso, sia, comunque, ravvisabile la partecipazione del professionista agli interessi economici finali ed esterni alla prestazione, giudiziale o stragiudiziale, richiestagli.
Secondo la Cassazione, non contrastava con il divieto del patto di quota lite, il cosiddetto “palmario”, diffuso soprattutto nell’Italia meridionale e consistente nell’ulteriore compenso corrisposto all’avvocato in caso di esito vittorioso della causa.
Il divieto del patto di quota lite è stato abolito lo scorso anno. L’articolo 2, comma 3 bis, del Decreto legge 4 luglio 2006 n. 223, convertito con modificazioni nella Legge 4 agosto 2006 n. 248 (cosiddetto decreto “Bersani”), ha sostituito il terzo comma dell’articolo 2233 del codice civile, che ora così dispone: “Sono nulli, se non redatti in forma scritta, i patti conclusi tra gli avvocati ed i praticante abilitati con i loro clienti che stabiliscono i compensi professionali”.
Il nuovo testo legislativo, che riguarda solo gli avvocati e non anche altri professionisti, introduce una prescrizione di forma scritta a pena di nullità per i patti che stabiliscono i compensi professionali: la norma si ispira ad un’esigenza di tutela dei clienti.
Ma, e questa è la novità, ora il patto riguardante il compenso dell’avvocato può anche essere un patto di quota lite.
Debbo confessare di non avere ancora avuto l’occasione di stipulare un patto di quota lite: da quando è diventato lecito, nessun cliente me l’ha più proposto.
Mi viene quindi il dubbio (a pensar male, si fa peccato ma spesso si indovina) che tanti di quei clienti che proponevano all’avvocato il patto di quota lite, in realtà sapessero bene che sarebbe stato loro risposto di no, in quanto il patto non era consentito.
Di contro, in forza di un’altra norma del decreto “Bersani”, più e più volte, mi sono stati proposti compensi inferiori ai minimi della tariffa professionale.
* * *

Come già ho detto, il divieto del patto di quota lite, sconosciuto nei paesi anglosassoni, è presente in vari ordinamenti dell’Europa continentale.
Il Tribunale costituzionale tedesco, con sentenza del 12 dicembre 2006, ha dichiarato incostituzionale il divieto affermando il seguente principio: “Nel diritto tedesco, poiché è meritevole di tutela l’interesse del cittadino che cerca giustizia a trasferire almeno in parte il rischio delle spese giudiziali sull’avvocato che lo rappresenta, non è compatibile con la garanzia costituzionale della libertà professionale il divieto legislativo di pattuire onorari forensi di risultato, compreso il divieto del patto di quota lite, nelle ipotesi in cui altrimenti il cliente sarebbe indotto a rinunciare a far valere i propri diritti”.
Il caso nasce dall’impugnazione proposta da una avvocatessa contro provvedimenti disciplinari adottati nei suoi confronti, in quanto aveva convenuto con il cliente un patto di quota lite.
Il fondamento della sanzione disciplinare era quella norma dell’ordinamento federale dell’avvocatura, secondo cui sono inammissibili pattuizioni che subordinano la retribuzione o il suo ammontare al risultato dell’attività professionale (onorario di risultato), o pattuizioni secondo le quali l’avvocato percepisce una parte dell’importo conseguito all’esito della controversia (quota lite).
Dalle serrate argomentazioni della sentenza del Tribunale costituzionale tedesco, è facile dedurre che il divieto del patto di quota lite, se fosse rimasto nell’ordinamento italiano o vi fosse reintrodotto (come credo auspichi buona parte dell’avvocatura organizzata che non ha certo digerito il decreto “Bersani”), potrebbe essere ritenuto incostituzionale.
Infatti, il diritto alla difesa, sancito dall’articolo 12 della Grundgesetz (la Costituzione tedesca), a cui fa riferimento la sentenza del Tribunale costituzionale, è il medesimo che è garantito dall’articolo 24 della Costituzione italiana.
Il diritto di difesa costituisce, nelle carte costituzionali dei paesi europei, una garanzia legata all’esigenza di un corretto svolgimento del processo, per il soddisfacimento di un interesse pubblico generale, che trascende l’interesse della singola parte in causa.


(articolo pubblicato su "La Cronaca" nell'ottobre 2007)

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