mercoledì 15 settembre 2010

AMNESTY INTERNATIONAL E L’ITALIA

Fondata nel 1962 dall’avvocato inglese Peter Benenson, Amnesty International è un’organizzazione non governativa sovranazionale impegnata nella difesa dei diritti umani. Lo scopo di Amnesty International è quello di promuovere, in maniera indipendente e imparziale, il rispetto dei diritti umani sanciti nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, approvata dalle Nazioni Unite nel 1948, e quello di prevenire specifici abusi di essa.
Nel 1977, all’organizzazione è stato assegnato il Premio Nobel per la pace.
Ormai da tempo, Amnesty pubblica ogni anno un rapporto sulla situazione dei diritti umani nel mondo.
Il rapporto, edito nel mese di giugno, documenta annualmente i motivi di preoccupazione di Amnesty, con riferimento ai diritti umani, nell’anno precedente.
La parte centrale del rapporto (un volume di circa settecento pagine) è costituita da paragrafi relativi a singoli paesi e territori, raggruppati per aree geografiche.
Ciascuno di questi paragrafi offre una panoramica della situazione dei diritti umani nel paese e descrive le particolari preoccupazioni di Amnesty e le possibilità di cambiamento previste in quel contesto.
E’ interessante vedere che cosa, nel rapporto di Amnesty, si dice a riguardo dell’Italia. Siamo, infatti, abituati a considerare il nostro paese come la patria del diritto, un paese nel quale i diritti umani vengono sempre rispettati (fin troppo, sostiene qualcuno, che ritiene inaccettabili le garanzie che l’ordinamento offre anche ai delinquenti, soprattutto se extracomunitari).
L’edizione 2007 del rapporto (relativa all’anno 2006), oltre a parlare di talune brutalità delle forze dell’ordine (relative a fatti di cronaca in genere da tutti ben conosciuti), lamenta, come l’edizione dell’anno precedente, che l’Italia ha continuato a non voler introdurre nel proprio codice penale il reato di tortura, così come definito dalla convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, adottata a New York il 10 dicembre 1984 e ratificata dall’Italia nel 1989.
Secondo l’articolo 1 della convenzione, “il termine tortura designa qualsiasi atto con il quale sono inflitti a una persona dolore o sofferenze acute, fisiche o psichiche, segnatamente al fine di ottenere da questa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che ella o una terza persona ha commesso o è sospettata di aver commesso, di intimidirla od esercitare pressioni su di lei o di intimidire od esercitare pressioni su una terza persona, o per qualunque altro motivo basato su una qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o tali sofferenze siano inflitti da un funzionario pubblico o da qualsiasi altra persona che agisca a titolo ufficiale, o sotto sua istigazione, oppure con il suo consenso espresso o tacito. Tale termine non si estende al dolore o alle sofferenze derivanti unicamente da sanzioni legittime, ad esse inerenti o da esse provocate”.
Anche se il rapporto di Amnesty non ne parla, alla fine del 2006, tuttavia, qualcosa è cambiato. La Camera dei Deputati, con voto pressoché unanime, ha approvato un disegno di legge che, inserendo nel codice penale l’articolo 613-bis, ha introdotto il reato di tortura.
La norma stabilisce che il delitto di tortura sia punito con la pena della reclusione da 3 a 12 anni e che commetta tale reato chiunque “con violenza o minacce gravi, infligge ad una persona forti sofferenze fisiche o mentali” allo scopo di ottenere da essa, o da una terza persona, informazioni o confessioni su un atto che essa stessa o una terza persona ha compiuto o è sospettato di aver compiuto. Ovvero allo scopo di punire una persona per l’atto dalla stessa o da una terza persona compiuto o è sospettato d’aver compiuto ovvero per motivi di discriminazione razziale, politica, religiosa o sessuale (il testo usa quindi quasi le stesse parole della convenzione di New York).
La pena – prevede ancora il testo – è aumentata se il reato di tortura viene commesso da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio. La pena ancora è aumentata se dal fatto deriva una lesione grave o gravissima; è raddoppiata se ne deriva la morte.
Il disegno di legge, trasmesso al Senato per l’approvazione definitiva, ad oggi, dopo più di dieci mesi, non è ancora divenuto legge.
L’introduzione del reato di tortura ha provocato qualche preoccupazione.
Come ha scritto sul “Corriere della Sera” un illustre commentatore in materia di diritto penale, Vittorio Grevi (del quale ebbi il privilegio di essere amico negli anni lontani degli studi universitari), il rischio è che il reato di tortura possa configurarsi “anche in condotte legittimamente tenute dagli organi inquirenti, o dalle autorità giudiziarie o penitenziarie, per fini di giustizia penale”.
E’ dato di comune esperienza, infatti, come certi interrogatori di polizia debbano talora essere, di necessità, piuttosto bruschi.
Nel frattempo, in attesa delle decisioni definitive del Parlamento, Amnesty International continua a contestare all’Italia il fatto di non prevedere, nel proprio ordinamento, il reato di tortura.


(articolo pubblicato su "La Cronaca" nell'ottobre 2007)

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